
In certi contesti, per fare carriera, ottenere incarichi prestigiosi o farsi invitare nei tanti talk show di “approfondimento”, spesso bisogna salire al volo sul carro del vincitore o unirsi al coro del politicamente corretto di turno, assecondando le mode ideologiche del momento per tornaconto personale, economico o narcisistico. Molto bello e pieno d’esempi il libro di Luca Ricolfi “Il follemente corretto”.
Per chi nella vita anela a questa iper-visibilità costruibile e decisamente non meritocratica non rimane che scegliere di associarsi alle opinioni più gettonate oppure rimanere a galleggiare in una mediocre invisibilità. Sappiamo bene che per uniformarsi ai gruppi di potere o d’interesse bisogna adattarsi al loro linguaggio, al loro pensiero, al loro look e al loro comportamento alimentare. Personalmente conosco alcune persone, per fortuna poche, molto concentrate su se stesse e sulla propria carriera, le cui scelte riflettono esattamente quanto ho cercato finora di descrivere.
Un vecchio proverbio dice che ‘l’abito non fa il monaco’, ma qualcuno ha giustamente osservato che, alla fine, tutti i monaci indossano il saio.
Accanto a chi ritiene che sia cosa buona cavalcare le mode del momento e su di esse saper “surfare” per essere sempre sulla cresta dell’onda, c’è anche una moltitudine di persone che ama salire sulle spalle dei giganti per vedere lontano, o che comunque per cultura e educazione ama ragionare con la propria testa e farsi idee proprie.
A questa categoria appartengono gli innovatori e coloro che, anziché restare tra il pubblico pagante, anche se in prima fila, preferiscono salire sul palco, assumendosi il rischio di ricevere applausi o fischi.
Noi che a vario titolo ci occupiamo di cibo naturale di origine animale, sia dal punto di vista della produzione primaria che della trasformazione del latte e della carne, e della sua promozione e commercializzazione, soprattutto se senior, abbiamo visto la grande evoluzione del rapporto tra allevamento e cibo di origine animale e consumatori.
Alcuni decenni fa fecero la loro comparsa sulla scena pubblica le prime associazioni animaliste. Con il senno di poi, va riconosciuto loro il merito di aver sensibilizzato tutti gli attori coinvolti sull’importanza di migliorare le condizioni di vita degli animali da allevamento. In modo forse involontario, ci hanno anche aiutato a comprendere che un animale allevato nel rispetto della propria etologia è spesso anche più produttivo e redditizio.
Molte di queste associazioni, tuttavia, non esistono più: alcune si sono semplicemente dissolte, altre hanno cambiato radicalmente missione, passando dall’obiettivo di migliorare la vita degli animali d’allevamento alla convinzione che quegli animali non dovrebbero esistere affatto, perché, secondo questa nuova visione, non è giusto né necessario consumare latte, carne o uova.
L’attivismo vegano affonda le sue radici soprattutto nelle città e in certi ambienti intellettuali, dove l’allontanamento dalla realtà agricola è ormai evidente e lascia spazio a un’attrazione quasi inevitabile per ciò che è artificiale, dall’idea di ambiente al cibo stesso. Oggi essere vegani è considerato attraente, moderno e politicamente corretto. Chi desidera essere percepito come perfettamente in linea con lo spirito del tempo e ben integrato nella società contemporanea, non deve far altro che salire sul carro, al momento vincente, di questa nuova ortodossia alimentare.
Chi invece continua a difendere l’agricoltura e il diritto di allevare animali per nutrirsene, lo fa con piena consapevolezza di quanto questa posizione sia oggi impopolare. Sostenerla comporta il rischio concreto dell’emarginazione sociale e offre ben poche opportunità per ottenere visibilità o scalare i media. Ne è prova il fatto che non esistano più movimenti impegnati a difendere la qualità della vita degli animali, siano essi da reddito o da compagnia. Una causa del genere raccoglierebbe pochi sostenitori e risulterebbe poco attraente per una politica sempre più ossessionata dalla ricerca compulsiva di consenso.
Nei salotti buoni e nei programmi televisivi vince chi si professa vegano perché amante dell’ambiente e degli animali. Del fatto che se non ci fossero gli allevamenti ci sarebbe la più grande estinzione di massa che la storia ricordi, a pochi interessa.
Poca attenzione viene rivolta anche alle sofferenze che l’uomo infligge agli animali d’affezione, sempre più percepiti attraverso la lente dell’antropomorfizzazione. È politicamente corretto considerarli quasi come feticci umani, mentre è moralmente deprecabile allevarli per nutrirsi. Gli agricoltori e gli allevatori vengono spesso dipinti come ‘sporchi, brutti e cattivi’, mentre i vegani sono presentati come colti e illuminati, perché il cibo artificiale prodotto dall’industria sarebbe sano, buono, e privo di impatti negativi sugli animali e sull’ambiente. Peccato che queste affermazioni siano ancora ben lontane dall’essere dimostrate.
L’esclusione sociale degli allevatori, e la scarsa considerazione professionale riservata a veterinari e zootecnici, non sono fenomeni recenti ma affondano le radici in una lunga storia di marginalizzazione. Questa dinamica si riflette spesso anche all’interno delle stesse filiere del latte e della carne, dove si ripete ciclicamente l’antico braccio di ferro sul prezzo riconosciuto alla stalla. In certi momenti sembra di assistere a un ritorno ai rapporti feudali tra il Signore e il contadino. C’è qualcosa di tenero, ma anche profondamente triste, nel vedere le campagne social di tanti agricoltori e allevatori che cercano invano di ricordare al pubblico che senza di loro non ci sarebbe cibo, o nel constatare che un’immagine di vita rurale fatica persino a strappare un like.
A questo punto, viene da chiedersi: di chi è la colpa di questa situazione, di questo esserci cacciati nel ghetto degli impresentabili?
Io credo che la responsabilità sia solo ed esclusivamente nostra. Non abbiamo mai davvero compreso l’importanza di ciò che facciamo, né quanto fosse cruciale dialogare con la gente. Solo dopo essere stati etichettati come i colpevoli di ogni nefandezza, i capri espiatori della sofferenza degli animali e della devastazione dell’ambiente, qualche coscienza ha cominciato a risvegliarsi dal torpore, cercando ora di rimediare agli errori fatti.
Noi di Ruminantia, che facciamo parte di questo gruppo di ‘impresentabili’ ma che, al contrario, ci sentiamo in armonia con ciò che la natura, quella vera, ci offre, e ci consideriamo custodi, e non padroni, del creato, abbiamo deciso di fare qualcosa per riqualificare l’immagine dell’agricoltura agli occhi della gente comune, dei politici, dei medici, degli avvocati e dei giornalisti.
Lo abbiamo fatto perché ci sentiamo equipaggio della barca dove viaggiano allevatori, agricoltori, trasformatori e tutti quelli che adottano la dieta mediterranea.
Il 13 marzo 2025 abbiamo invitato a Cremona tutte quelle persone vicine a vario titolo al mondo agricolo che sono preoccupate per la piega che sta prendendo questo accanirsi contro ciò che è naturale.
Recuperare il tempo perduto non sarà facile, e trovare cittadini disposti a rinunciare ai vantaggi immediati derivanti dall’essere politicamente o follemente corretti, per evitare di consegnare alle future generazioni un mondo dove la vita sarà vissuta con angoscia e in un contesto puramente artificiale, sarà una sfida difficile.