
E’ sempre bene ricordare che il nostro Paese è stato nel passato molto lungimirante nel creare, anche nel cibo, una via di fuga dalla “palude” delle commodity. Con i nostri esigui 12.431.808 ettari di SAU, pari a circa il 40% del territorio italiano, e le nostre 1.133.006 aziende agricole e zootecniche siamo ben lontani dall’autosufficienza in materia di cibo per il consumo interno e l’esportazione.
Per il latte siamo ad oggi autosufficienti per l’80% e per la carne bovina per poco più del 40%. Competere con le materie prime e il cibo commodity con gli altri Paesi, sia UE che extra UE, sarebbe stata per noi una battaglia persa in partenza, per ovvie ragioni. Orientare la competizione verso prodotti alimentari di qualità certificata, come quelli a denominazione d’origine (DOP, IGP, STG), ci ha invece permesso di esaltare il valore della nostra produzione primaria, generando un ritorno economico significativo e favorendo lo sviluppo dell’agroalimentare italiano.
Del resto, abbiamo già seguito questo approccio nel manifatturiero, nell’industria e nel turismo, riuscendo a conquistare il nono posto tra le economie più forti al mondo, nonostante la carenza di materie prime e le ridotte dimensioni territoriali. Avremmo potuto ritagliarci un ruolo rilevante anche nella web economy, ma il tempo si può ancora recuperare, a patto di volerlo davvero. Per farlo è indispensabile investire nell’istruzione e nella capacità di attrarre capitali e talenti, anche dall’estero.
Per comprendere meglio la DOP Economy ci facciamo aiutare da qualche numero contenuto nel report ISMEA- QUALIVITA 2024. La DOP economy italiana ha un valore di 20.2 miliardi di euro (dati 2023), che è pari al 19% di tutto l’agroalimentare italiano, e genera un export da 11.6 miliardi. Gli occupati nelle filiere IG sono 847.405 e gli operatori 194.387. Il totale dei prodotti a denominazione d’origine è nel mondo composto da 3.428 referenze di cui uno su quattro, ossia il 25%, sono italiani, tra cibo e vino.
In Italia si contano 856 prodotti a Indicazione Geografica, di cui 238 relativi al settore alimentare. Questi ultimi generano un valore alla produzione di 9,17 miliardi di euro e un valore al consumo di 17,97 miliardi, con un export pari a 4,7 miliardi. A livello europeo, l’Italia è il primo Paese per numero di prodotti IG, seguita da Francia, Spagna, Grecia e Portogallo.
Tra le Dop del cibo italiano spiccano i formaggi (57 referenze) con 5.5 miliardi di euro alla produzione e 9.4 al consumo, seguiti dai prodotti della carne (43 referenze). Al 2023, 23.742 allevamenti hanno consegnato 12.861.000 tonnellate di latte di cui il 49% (6.284.000 ton) destinato alla produzione di IG. Altre 5.131.000 tonnellate di latte sia italiano che straniero sono state destinate a produrre formaggi non DOP,IGP e STG.
Questi risultati, così positivi, rappresentano motivo di orgoglio e di ricchezza per l’intera filiera. Tuttavia, come spesso accade per chi è leader, non mancano le preoccupazioni: per continuare a eccellere è fondamentale valutare rapidamente nuove idee, aggiornare i disciplinari di produzione, intensificare la comunicazione e, aspetto tutt’altro che secondario, prendersi cura della produzione primaria. In definitiva, bisogna orientarsi con intelligenza verso ciò che realmente desidera il consumatore.
In alcuni casi è bene anche attivare piani di regolazione dell’offerta per tenere alto il posizionamento di mercato che per i prodotti IG è un aspetto fondamentale, soprattutto per la tutela della produzione primaria (per approfondire guarda l’intervista “Il Piano di Regolazione dell’Offerta: una lezione da imparare“).
Ma quali sono i rischi che potrebbero mettere in difficoltà il cibo a denominazione d’origine italiano?
Il primo tra tutti è la concorrenza interna. Molto esemplificativo è l’esempio della Mozzarella di Bufala Campana che possiamo trovare sul mercato sia DOP che non DOP, con caratteristiche organolettiche simili dai più indistinguibili.
Questo può valere anche per formaggi duri come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, ma anche per tanti altri prodotti del latte e della carne. Per fare un prodotto a denominazione d’origine ci vuole un disciplinare che deve essere approvato sia in Europa che in Italia e che, oltre a descrivere il prodotto, regolamenta la provenienza e le caratteristiche della materia prima che lo compone, e in alcuni casi anche l’alimentazione ammessa per gli animali con alcuni vincoli restrittivi e altri obblighi.
La zona di provenienza, almeno per le DOP e le IGP, è imprescindibile, mentre i vincoli sul tipo di alimentazione degli animali e sugli alimenti che compongono la razione possono fare la differenza e mettere in condizioni una DOP di differenziarsi dall’analogo prodotto non DOP, e anche dalle contraffazioni.
I Consorzi di tutela dei formaggi o dei prodotti a base di carne hanno una differente sensibilità nei confronti delle caratteristiche chimico-fisiche ed organolettiche (colore, odore e sapore) della materia prima di base, per cui hanno rapporti molto diversi con la produzione primaria e quindi con gli allevatori.
Lo stesso vale per il rispetto della qualità della vita degli animali e della tutela ambientale, spesso sintetizzati nei concetti di benessere e sostenibilità, e della salute umana. Da un prodotto a Indicazione Geografica, il consumatore si aspetta standard più elevati rispetto a quelli del cibo non DOP, ed è spesso disposto a pagare un prezzo maggiore per questa garanzia di qualità.
Cito spesso Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio del Formaggi Parmigiano Reggiano, quando dice che questo “non può essere solo il formaggio più buono”. Il suo disciplinare è composto da diciassette pagine, di cui ben cinque dedicate all’alimentazione delle bovine. Non è da meno il Consorzio di Tutela del Grano Padano, che dedica l’articolo 4 del suo disciplinare di produzione all’alimentazione.
Queste due DOP hanno prodotto complessivamente nel 2023 ( fonte ISMEA-Qualivita) 369.946 tonnellate di formaggio, con un valore alla produzione di circa 3.4 miliardi di euro. Forse, tra i principali motivi di questo ormai consolidato successo c’è lo stretto rapporto che hanno con la produzione primaria, ossia gli allevatori.
Da prodotti di alta fascia, che costano decisamente di più di quelli “industriali”, ci si aspetterebbe di trovare in etichetta e nella comunicazione maggiori informazioni sulla qualità della vita degli animali e su come vengono allevati, sull’economia circolare, che è un potente claim tipico dell’allevare i ruminanti, sulla gestione dell’acqua e dell’energia (rinnovabili), sulle emissioni di gas climalteranti e sul legame con il territorio (comprensorio) e la tradizione.
L’importanza di queste informazioni è dimostrata dal report semestrale dell’Osservatorio Immagino-GS1-Italy dal titolo “Le etichette dei prodotti raccontano i consumi degli italiani”, che raccoglie informazioni su 138.000 referenze vendute dai super e ipermercati che corrispondono all’83.4% del totale distribuito. Secondo il loro sedicesimo report, che analizza l’arco temporale giugno 2023- giugno 2024, i claim riconducibili all’italianità sono presenti nel 27.9% delle referenze ed è così perché ritenuti importanti da parte dell’industria.
I claim dell’area tematica “sostenibilità” sono presenti sulle etichette di 119.950 prodotti, ossia l’84.6% di quanto venduto dalla GDO (food e no food).
I coraggiosi piani di regolazione dell’offerta del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano hanno sensibilmente stabilizzato l’offerta, ridotto le oscillazioni dei prezzi legati al rapporto domanda/offerta tipico delle commodity e capitalizzato le aziende tramite le “quote formaggio”. Alcuni Consorzi di Tutela stanno già seguendo questa direzione, mentre altri sembrano accettare come fisiologiche le ampie oscillazioni di prezzo tipiche delle commodity.
Tuttavia, in una prospettiva di medio-lungo termine, soprattutto per le produzioni destinate ai mercati occidentali più esigenti, la presenza di contaminanti come micotossine, tossine vegetali, metalli pesanti, inquinanti organici persistenti alogenati, contaminanti da processo e altre sostanze regolamentate dal Regolamento (UE) 2023/915 del 25 aprile 2023, inciderà in modo significativo sulle vendite e sul posizionamento competitivo dei prodotti.
Abbiamo iniziato ad approfondire questo tema con Riccardo Quintili, direttore de Il Salvagente, all’interno di un’intervista intitolata “Oltre la qualità“. Il titolo riflette la crescente attenzione di una parte della popolazione, difficile da quantificare, che teme rischi per la salute legati alla presenza di contaminanti negli alimenti, anche quando presenti al di sotto dei limiti legali (MRL).
Si tratta di una preoccupazione trasversale, indipendente da orientamenti politici, capacità di spesa, livello di istruzione, età o inclinazione ideologica verso il biologico.
Un segnale, questo, che impone al mondo delle Indicazioni Geografiche una riflessione profonda: la qualità percepita non può più limitarsi alla certificazione di origine, ma deve includere anche sicurezza, trasparenza e rassicurazione verso un consumatore sempre più informato ed esigente.