Tutti sappiamo che il “tallone d’Achille” del successo economico nell’allevare le vacche da latte è principalmente legato al bilancio energetico e proteico negativo della fine della gravidanza e delle prime settimane di lattazione. Da esso derivano le principali malattie metaboliche, i principali fattori di rischio dell’infertilità e la scarsa produzione. Diagnosticare il bilancio energetico e proteico negativo è semplice. Si va dal dimagrimento delle bovine, ai biomarker del latte e ai metaboliti del sangue. Evitare questa situazione metabolica non è biologicamente possibile mentre ridurne la gravità certamente lo è. Molte sono le soluzioni da cercare. La prima è sicuramente quella di creare tutte quelle condizioni manageriali e nutrizionali che agevolino l’ingestione. La seconda è quella di “indirizzare” il rumine a produrre la maggiore quantità possibile di biomassa microbica e conseguentemente di acidi grassi volatili, tra i quali preferibilmente l’acido propionico. Per raggiungere questi obiettivi si tende a scegliere la strada degli amidi, ed in particolare, quelli derivanti dal mais. La sostituzione della fibra della razione con mais, sia secco che insilato, provoca un importante aumento della produzione ruminale di acido propionico e biomassa batterica, che altro non è se non proteina metabolizzabile. Esistono tuttavia dei limiti fisiologici invalicabili. La riduzione di fibre “ ruminabili” provoca una riduzione del pH ruminale per la minore produzione di saliva e quindi un aumentato rischio di acidosi ruminale. Inoltre, le grandi produzioni di acido propionico che arrivano al fegato sono in grado di stimolare il centro della sazietà ipotalamico, con la conseguente riduzione dell’ingestione della bovina.
Ciò vanifica di fatto i vantaggi offerti da una razione più ricca di amido. I fabbisogni nutritivi della vacca da latte sono oggi molto precisi, fino al dettaglio degli aminoacidi. Così non è per i carboidrati non strutturali, ed in particolare dell’amido, per il quale non esiste un fabbisogno consigliato se non un ampio range che va dal 20 al 30% della sostanza secca della razione. L’atteggiamento consigliabile è il seguente. Se nella razione sono presenti foraggi molto digeribili, come l’insilato di mais o fieni di graminacee giovani, si può “tentare” di puntare a livelli di amido più elevati, sempre che le bovine possano alimentarsi senza grosse competizioni in mangiatoia dettate da uno spazio insufficiente. La cosa più importante è tuttavia l’attento e giornaliero monitoraggio dell’ingestione e dei sintomi spesso impercettibili dell’acidosi ruminale sub-clinica. Se le bovine non ingeriscono la quantità di sostanza secca che teoricamente dovrebbero mangiare e tutti gli altri fattori che la condizionano sono a posto, è probabile che il pH riminale sia troppo basso oppure che la concentrazione di propionati nel fegato sia superiore alla sua capacità di trasformali in glucosio. Altro aspetto importante è la costanza dell’ ingestione di sostanza secca nei giorni. Se questa è altalenante, e magari lo è anche la produzione di latte, ciò è espressione di un pH ruminale troppo basso. Importante è anche il costante monitoraggio della qualità delle feci. Feci liquide ma con troppa fibra indigerita sono anch’esse espressione di acidosi ruminale sub-clinica. In conclusione possiamo dire che il fabbisogno di amido è una caratteristica del singolo allevamento. Il costante e attento monitoraggio dell’ingestione e dei sintomi dell’acidosi sub-clinica da parte dell’allevatore e del suo buiatra sono l’unica strada percorribile per stabilire la massima concentrazione di amido da utilizzare nella razione delle vacche fresche.
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