Introduzione ed emissioni
La crescente attenzione di tutta l’umanità nei confronti del cambiamento climatico e l’interesse per tutti i temi ambientali hanno stimolato anche il settore agro-zootecnico, preoccupato che l’allevamento sia percepito come un “untore” climalterante pericoloso, a trovare sistemi credibili ed efficienti per qualificare il proprio prodotto (latte, carne e derivati) anche in termini di sostenibilità.
Integrare questo concetto nella filiera significa misurarsi con l’impatto ambientale e più specificamente con il CF = Carbon Footprint (impronta di Carbonio); e i valori ottenibili considerano l’aspetto di tutte emissioni di cui le produzioni zootecniche sono responsabili.
Per dare una lettura più corretta a dati che altrimenti si prestano ad una visione ingiustificatamente allarmistica è necessario mutuare un concetto finora utilizzato solo per l’impatto umano sull’ambiente: la BioCapacity. In campo agricolo altro non è che la capacità di sequestro del carbonio da parte delle colture agricole e, nel caso della zootecnia, il suo reinserimento nel terreno tramite ciclo dei reflui.
Una sua corretta valutazione permette il calcolo dell’ecological footprint (EF) che risulta da una semplice sottrazione:
EF = CF – BIOCAPACITY
Questo calcolo, che oggi permette di calcolare la superficie di terra ed acqua necessaria a rigenerare le risorse consumate e assorbire i rifiuti generati dalle attività umane, permetterà un valore semplificato ma rigoroso di contabilizzazione dei flussi del carbonio anche di quelle zootecniche.
Carbon Footprint
Importante è utilizzare strumenti in grado di misurare le emissioni di GHG (Green House Gases) che sono, in ordine di effetto climalterante, NO2, metano, CO2. Le emissioni sono espresse in termini di CO2 equivalenti. Il calcolo viene effettuato sulle emissioni animali e su quelle dei macchinari utilizzati nella filiera (macchine agricole, impianti di trasformazione, mezzi di trasporto, macchinari destinati alla stalla ecc…).
Questi strumenti sono oggi a disposizione e riconosciuti internazionalmente a partire delle linee guida fornite dall’IPCC (Intergovernative Pannel of Climate Change) basandosi sull’analisi dell’LCA (Life Cycle Assestment).
Si potrebbero utilizzare le equazioni di calcolo delle emissioni enteriche bovine del CNCPS (Cornell Nutrient Carbohydrate and Protein System) che sono in grado di offrire valori molto accurati per questo settore specifico.
BioCapacity
I fattori principali del sequestro di Carbonio in campo agricolo sono:
- lo stoccaggio di carbonio che le colture effettuano grazie alla fotosintesi clorofilliana e che va calcolato in funzione principalmente dall’Harvest index (indice di raccolta) che permette, a seconda della coltura, di misurare la quantità di tessuti vegetali aerei che rimangono nel terreno;
- l’entità dell’apparato radicale;
- il contenuto iniziale di sostanza organica del terreno;
- i coefficienti di umificazione e di mineralizzazione dei singoli terreni;
- l’interramento o meno dei residui colturali;
- Il numero totale dei giorni di copertura del terreno;
- l’utilizzo di lavorazioni volte al mantenimento della struttura del terreno;
- la presenza di zone boschive.
Alla BioCapacity concorrono inoltre, positivamente, anche le seguenti pratiche:
- la rotazione colturale (graminacee/leguminose);
- semina di due colture durante l’anno (Cereale Invernale + Mais o Sorgo);
- semina di prati perenni/poliennali;
- adozione di Tecniche di minima lavorazione (Minimum Tillage);
- il Sovescio;
- distribuzione/interramento di liquame, letame e/o digestato (frazione solido-liquida).
Il calcolo della Biocapacity viene effettuato a partire da dati scientifici ma il suo valore, almeno fino ad oggi, non ha ancora un riconoscimento ufficiale tramite una metodologia riconosciuta, come avviene per il CF.
Ecological Footprint (EF)
Tramite la valutazione di entrambe le componenti dell’equazione si potrebbe arrivare a calcolare l’EF ad una data T° con possibilità di monitorarne annualmente le variazioni certificandole e tracciandole nel tempo.
Naturalmente, la sommatoria delle buone pratiche agricole e di interramento, e l’adozione di un sistema produttivo più efficiente (precision farming), permetterebbero all’azienda di migliorare nel tempo il bilancio della CO2 avvicinandosi o raggiungendo nel tempo (T°+n^) una produzione di CO2 Neutrale
In caso di aziende particolarmente virtuose (interramento del digestato proveniente da biogas o biometano) si potrebbe raggiungere l’obiettivo di diventare in misura più o meno grande Carbon Negative.
Questa condizione genera un ulteriore vantaggio per l’azienda virtuosa, in quanto la vendita di crediti di carbonio a chi non raggiunge la neutralità potrebbe essere un’ulteriore e non irrilevante fonte di reddito.
Buone pratiche zootecniche di mitigazione
Dopo questa necessaria premessa ideologica, bisogna entrare nel merito di quali possono essere le azioni che la singola azienda agricola può mettere in pratica per mitigare le emissioni di origine animale.
La prima azione che interessa le bovine in lattazione è quella di migliorare l’efficienza alimentare: la produzione di metano in ambito ruminale è correlata negativamente con la produzione di acido propionico e con la produzione di latte, e positivamente con la produzione di acido acetico e butirrico. Della produzione di metano sono responsabili gli Archea, ossia le specie più antiche dei batteri cellulosolitici.
Potremmo asserire senza timore di smentite che la differenza di produzione di CO2 equivalente per litro di latte ascrivibile alle vacche in lattazione tra un’azienda con 3 mungiture o con presenza di robot a circolazione libera, con un rapporto foraggi/concentrati 50/50 e con livelli produttivi oltre i 130ql/vacca/anno, e un’azienda con stabulazione semi pascolativa con rapporto foraggi/concentrati 75/25 e una produzione di 80 ql/vacca/anno, passa da valori di 0.70/0.75 CO2eq/litro nel primo caso a valori di 1,10/1,15/litro di CO2eq nel secondo. (Knapp et al., 2014).
Quindi, se consideriamo le emissioni non in rapporto al litro di latte prodotto, ma per vacca presente il risultato è 13000 lt/vacca/anno*0.72=9.360 CO2eq nel caso dell’azienda più produttiva e di 8000lt/vacca/anno*1,12=8960 CO2eq per la seconda, quindi un valore pressochè equivalente ma con 5000 litri di latte in più disponibili per il consumo.
La produzione di metano per litro di latte è quindi molto inferiore negli allevamenti più efficienti, che spesso vengono confusi con gli allevamenti più intensivi. Sappiamo bene infatti che il benessere animale in genere, e i sistemi di climatizzazione (che, guarda caso, sono un efficiente antidoto al climate change) in particolare, elementi tipici del precision farming, si integrano a perfezione col precision feeding allo scopo di raggiungere performance elevate.
Per quanto riguarda l’uso di integratori alimentari che riducano le emissioni di metano enterico, bisogna distinguere due categorie: i probiotici, che agiscono modulando l’attività del microbioma ruminale, come ad esempio il lievito vivo che diminuisce il potenziale redox del rumine, e quelli che intervengono su determinate reazioni chimiche riducendo la produzione di metano (tannini, 3-NOP).
Dal punto di vista zootecnico tutte le strategie volte a diminuire il numero di animali improduttivi, che emettono metano senza produrre latte, aiutano a ridurre l’impatto per litro
Tutto ciò che serve a diminuire la quota di rimonta è strumento efficiente: quindi migliorare i parametri riguardanti la fertilità (HDR, CR e PR), la sanità mammaria e le lesioni podali, che sono le principali cause di riforma involontaria, aiuta a migliorare il Carbon Footprint.
Naturalmente anche allevare solo animali giovani necessari alla rimonta e vendere tutti gli altri il prima possibile è uno strumento interessante, calcolando che in un allevamento tradizionale le emissioni della rimonta da 4 a 22 mesi rappresentano circa 0.20-0.3 di CO2eq nel computo per litro di latte a seconda del tipo di dieta degli animali giovani.
Quindi, tra un’azienda che alleva tutte le femmine vive (circa il 45% del totale dei nati) per venderne una parte spesso ad un prezzo non profittevole, ed una che ne alleva solo il 25%, avendo diminuito a questo valore la quota di rimonta, la seconda produce da 0,10 a 0,12 CO2 eq/litro latte in meno della prima.
Dal punto di vista dell’utilizzo degli alimenti in genere, va ricordato che una maggior autosufficienza alimentare induce una riduzione del CF dal momento che si riducono le emissioni dovute ai trasporti degli alimenti acquistati. Anche l’introduzione di maggiori superfici di medicaio riduce l’acquisto di materiali proteici dall’esterno.
Riferendosi ai prodotti extra aziendali da utilizzare per mitigare l’impronta di carbonio ricordiamo che il LUC (Land Use Change) è uno degli elementi che determinano maggiormente l’impronta di carbonio degli alimenti somministrati ai bovini.
Cos’è il LUC?
Essenzialmente. il cambio d’uso del terreno: l’esempio più tipico riguarda la deforestazione applicata in Brasile per aumentare la superficie coltivata a soia. Avendo diminuito l’effetto cattura di CO2 delle zone amazzoniche, alla farina si estrazione di soia proveniente dal Brasile va imputata un’impronta di CO2 superiore a quella della soia ad esempio coltivata in Italia.
Un ultimo aspetto non irrilevante delle emissioni di CO2 generate dall’allevamento è quello riguardante le emissioni dei mezzi utilizzati per distribuzione alimenti, gestione stalla, e sala di mungitura: su questi aspetti purtroppo operare una mitigazione sembra più complicato.
Esaurito il capitolo riguardante le emissioni, vi do appuntamento a quello riguardante la Biocapacity e la parte più strettamente agronomica.
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