Sono ormai alcuni anni che l’allevamento degli animali classificato come “intensivo” è oggetto di feroci attacchi da parte dell’opinione pubblica. Piovono critiche sul fatto che gli animali soffrono e che l’impatto ambientale della produzione di carne e di latte è assolutamente non sostenibile. Come in tutte le cose, del vero c’è, e questo è un buon motivo per cambiare ciò che non va e ciò che è diventato obsoleto, difendendosi al contempo con solidi argomento dalle accuse infondate.
La storia dell’uomo e del suo progredire è disseminata di convinzioni e certezze che la ricerca scientifica ha puntualmente demolito. Nessuno di noi pensava in “scienze e coscienza” che dare da mangiare la farina di carne ai ruminanti potesse mettere a rischio la salute dell’uomo, oltre a quella degli animali, come avvenne quando si osservò per la prima volta l’encefalopatia spongiforme bovina nel 1986 in Gran Bretagna, che poi si capì derivare dall’ingestione di proteine prioniche presenti in alcune farine di carne. Per chi è giovane, è bene sapere che si dimostrò allora il legame tra questa “contaminazione” ed il morbo di Creutzfeld-Jakob dell’uomo e che quindi dal 1994 è stato vietato l’uso delle farine di carne nei ruminanti. Di questi esempi se ne potrebbero però citare moltissimi, a testimonianza del fatto che nel tempo (a volte molto tempo dopo) spesso si acquisisce la consapevolezza che alcuni aspetti delle attività umane possono avere gravi ripercussioni sulla salute della gente e del pianeta.
Solo negli ultimi anni si è raggiunta una piena consapevolezza del fatto che allevare gli animali per produrre cibo è inquinante, come tante altre attività umane, e un numero sempre crescente di allevatori sta riqualificando gli allevamenti per rendere sempre più sostenibile la sua attività.
Molti allevamenti italiani sono pronti ad intraprendere il percorso verso la “carbon neutral” e sono ad un passo dal riuscirci, aiutati anche da specifici programmi comunitari e nazionali d’incentivazione economica. La principale fonte di produzione di gas climalteranti è la CO2 derivante dall’utilizzo dei combustibili fossili per produrre energia. Un allevamento intensivo utilizza energia per produrre gli alimenti, lavorarli e distribuirli agli animali, per la pulizia delle stalle, per raffrescare gli animali in estate, per l’illuminazione ed i servizi, e, nel caso dei ruminanti da latte, per effettuare la mungitura e conservare refrigerato il latte. Di converso, però, la grande quantità di liquami prodotti dalle stalle può essere una materia prima preziosa per produrre biogas e biometano, e le ampie superfici delle stalle e dei ricoveri agricoli possono fornire un abbondante supporto per istallare impianti fotovoltaici e solare-termici. Si stanno inoltre diffondendo, ancora troppo lentamente, gli impianti automatici elettrici per distribuire l’unifeed.
Pertanto, un allevamento intensivo di ruminanti può produrre più energia di quanta ne consumi e, attraverso le superfici agricole coltivate o i prati permanenti, può sottrarre un’importante quantità di CO2 (decarbonizzazione) dall’atmosfera. Con le dovute tecnologie, un numero ancora imprecisabile di allevamenti potrebbe porsi l’obiettivo della carboneutralità e passare dall’essere consumer di energia all’essere un prosumer, ossia un soggetto attivo che consuma energia ma ne produce anche di più rispetto al suo fabbisogno.
Nel progetto della Stalla Etica di Ruminantia, presentato nel 2017, l’impatto ambientale è tra le principali priorità.
Ovviamente non è immaginabile che tutti gli allevamenti italiani di ruminanti si riconvertano contemporaneamente in un’ottica green. É bene però che chi ha iniziato il percorso o la ha concluso lo faccia sapere a tutti e con forza, per attrarre l’interesse dell’industria lattiero-casearia e della GDO fungendo anche da stimolo per i suoi colleghi. Queste stalle virtuose e pioniere potrebbero fregiarsi dello slogan “#ilmioallevamentoèdifferente” e spiegare diffusamente il perché.
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