
Ho sentito il bisogno di dedicare l’editoriale di Ruminantia Mese di maggio 2025 ad alcune riflessioni maturate in circostanze all’apparenza molto diverse ma profondamente connesse tra loro, come cercherò di spiegare. Tutti noi, prima o poi, ci siamo trovati a dover interagire con il mondo medico, spesso all’interno di strutture ospedaliere, quando la salute ha deciso di prendersi una pausa, più o meno lunga o più o meno grave.
Non è intento di questo editoriale esprimere giudizi sul sistema sanitario pubblico, ma qualche considerazione sul modo di operare della medicina attuale è doverosa. Complice anche un evidente sottodimensionamento del personale medico e la necessità di tutelarsi da eventuali implicazioni legali, la pratica clinica si affida sempre più spesso a protocolli diagnostici, terapeutici e prognostici standardizzati. Un approccio che, se da un lato garantisce uniformità e sicurezza, dall’altro rischia di allontanarsi da quella dimensione professionale individuale che ha accompagnato la medicina fin dalle sue origini.
Chi non è del mestiere resta spesso sorpreso nel constatare come, di fronte alla stessa patologia, medici diversi possano formulare diagnosi e proporre terapie anche profondamente differenti. Questo accade perché, a differenza della chimica o della matematica, la medicina non è una scienza esatta. È una disciplina fondata su un approccio probabilistico, coerente con la natura stessa della biologia e della fisiologia umana, che sono complesse, variabili e mai del tutto prevedibili.
Di fronte allo stesso fattore di rischio o allo stesso patogeno, l’organismo può manifestare sintomi diversi e rispondere in modo imprevedibile alle stesse terapie. I medici che scelgono di assumersi rischi e responsabilità per onorare pienamente la loro professione, prendono spesso decisioni diverse per la stessa malattia, adattandole al singolo paziente. Questo approccio, autenticamente professionale, poggia su due pilastri fondamentali: una solida conoscenza teorica della fisiologia e della patologia, e un patrimonio di esperienza clinica maturata sul campo.
Questo potente connubio tra conoscenza teorica ed esperienza consente al medico di prendere decisioni rapide, talvolta più intuitive che analitiche, ma spesso efficaci nel trovare soluzioni anche dove sembrano non esserci. I protocolli diagnostici e terapeutici hanno certamente la loro utilità, ma risultano più adatti alla gestione di situazioni cliniche semplici, in cui non sono richieste né una profonda preparazione teorica, né una lunga esperienza sul campo, né un aggiornamento continuo e rigoroso, né particolari doti di intuito e intelligenza clinica.
Un approccio professionale realmente efficace richiede, oltre a solide basi teoriche ed esperienza clinica, anche un livello medio-alto di intelligenza. Una qualità che, se in parte può essere influenzata da predisposizioni innate, si sviluppa soprattutto attraverso l’abnegazione, lo studio, il lavoro intenso e l’allenamento costante. L’intelligenza, in fondo, non è altro che la capacità di adattarsi a situazioni nuove, cioè a contesti per i quali non si possiede un’esperienza diretta. Ed è proprio in queste circostanze che si misura il valore autentico di un professionista.
Un medico, che operi sugli esseri umani o sugli animali, per esercitare con successo la propria professione deve saper trovare un equilibrio consapevole tra l’applicazione dei protocolli e l’approccio professionale. Non di rado, infatti, è proprio il medico a dover elaborare protocolli adatti al singolo caso, attingendo alla propria competenza teorica ed esperienza.
È anche alla luce di questo che un’altra serie di circostanze mi ha spinto a proporre alcune riflessioni che desidero condividere con voi lettori.
Sto partecipando a diversi incontri con studenti e giovani laureati in medicina veterinaria, nei quali si discute se l’attuale impostazione didattica di questo percorso formativo sia realmente funzionale all’ingresso dei neolaureati nel mondo del lavoro e, una volta conclusi gli studi, quali scelte professionali sia opportuno intraprendere.
In un articolo pubblicato su Ruminantia, intitolato “La medicina veterinaria sta perdendo un treno”, ma anche in molti altri contributi, abbiamo già sfiorato il tema, partendo da un dato che fa riflettere: il mondo produttivo è alla ricerca di medici veterinari, ma apparentemente non riesce a trovarli.
Nel frattempo, negli allevamenti si è diffusa con forza la cultura del protocollo, promossa nei numerosi momenti di aggiornamento organizzati da aziende e associazioni. Una cultura che, se da un lato ha contribuito a risolvere alcune criticità gestionali, dall’altro ha progressivamente marginalizzato l’approccio professionale di molte specializzazioni veterinarie, e non solo, coinvolte nella zootecnia.
Ma se per gestire correttamente le unghie, le mastiti, i problemi riproduttivi, la fecondazione, la vitellaia, la nutrizione e molto altro ancora è sufficiente applicare protocolli standardizzati, spesso mutuati da contesti molto diversi dal nostro, viene naturale porsi una domanda: quale è, oggi, il ruolo del professionista? E soprattutto, quale è il valore della sua formazione, della sua esperienza e della sua capacità di adattare conoscenze complesse alla realtà concreta degli allevamenti?
È un dovere morale raccontare ai giovani, con onestà e senza edulcorazioni, che la figura autorevole e carismatica del medico veterinario, così come quella del medico di famiglia, sta progressivamente perdendo centralità. A soppiantarla è un nuovo modello operativo, in cui prevale il ruolo di “dispensatore di protocolli”, siano essi forniti da aziende, da associazioni o dagli stessi veterinari.
Una delle grandi criticità della sanità pubblica, del resto, è proprio questa: il medico di base è spesso ridotto a prescrivere farmaci e a redigere certificati, mentre esercita sempre meno la medicina clinica sul campo, come testimonia la scomparsa delle visite domiciliari. Così, anche di fronte a disturbi lievi, i cittadini sono costretti a ricorrere al Pronto Soccorso, che ha finito per assorbire molte delle competenze che un tempo appartenevano al medico di famiglia.
Un fenomeno analogo si osserva nella medicina veterinaria che si occupa degli animali da reddito, oggi fortemente orientata alla promozione della cultura del protocollo e a un aggiornamento professionale spesso guidato più dalla necessità di acquisire crediti formativi che da un reale desiderio di approfondimento. Con le dovute e apprezzabili eccezioni, questo approccio rischia di distaccarsi progressivamente dalla realtà concreta degli allevamenti.
Eppure, gli allevatori si trovano ad affrontare sfide sempre più complesse:
- la selezione genetica, sempre più spinta, modifica in profondità la fisiologia degli animali;
- il cambiamento climatico altera condizioni ambientali e produttive;
- il rapporto, spesso teso, con l’opinione pubblica impone nuove responsabilità.
In questo contesto, servirebbe una medicina veterinaria diversa: dotata di una solida preparazione tecnica e culturale, anche umanistica, capace di affiancare gli allevatori con presenza, competenza e spirito critico. Una medicina veterinaria che sappia affrontare i problemi quotidiani con strumenti scientifici, ma anche con empatia e senso pratico, e che sia in grado di dialogare alla pari con le altre figure professionali che ruotano attorno alla gestione degli allevamenti, per contribuire con autorevolezza alle decisioni strategiche.
In quest’ottica, anche i protocolli più autorevoli rischiano di diventare rapidamente obsoleti se non esiste l’alternativa, solida e concreta, di professionisti preparati, intelligenti e capaci di agire con autentico approccio professionale. Senza questa presenza qualificata, sia la zootecnia che la medicina veterinaria rischiano un futuro tutt’altro che promettente.
La cultura dell’agire per protocolli, va detto, è estremamente attraente: costa meno, richiede meno competenze specialistiche e, soprattutto, deresponsabilizza. Offre una protezione rassicurante rispetto ai rischi sanzionatori, siano essi di natura amministrativa o penale. È quindi facile comprenderne la diffusione, ma non per questo è meno insidiosa.
L’avanzare dell’intelligenza artificiale, in grado di attingere senza filtri alla vastità della Rete e generare protocolli diagnostici, terapeutici e gestionali in quantità pressoché illimitata, rischia di accelerare questo processo. Algoritmi sempre più sofisticati potrebbero teoricamente gestire interi allevamenti, riducendo al minimo la necessità di intervento umano specializzato.
Ma questa prospettiva, se non gestita con intelligenza e lungimiranza, porta con sé rischi significativi. Perché quando insorgono problemi complessi, e negli allevamenti come negli ospedali prima o poi accade, servono competenze reali, esperienza, giudizio e capacità di adattamento. Un po’ come accade nella sanità pubblica, dove il ricorso ai Pronto Soccorso è diventato la scorciatoia obbligata per accedere a cure che, un tempo, erano garantite dal medico di base.
Anche nella zootecnia il pericolo è quello di affidarsi a sistemi che funzionano solo finché tutto va secondo copione. Ma quando l’imprevisto bussa alla porta ci sarà bisogno di qualcuno che sappia davvero leggere la complessità, comprendere la fisiologia, interpretare i segnali deboli e prendere decisioni non automatizzabili. In poche parole: ci sarà bisogno di veri professionisti.
Tutti noi che ci occupiamo in Italia degli animali destinati alla produzione alimentare abbiamo assistito alla nascita e alla gestione del concetto di benessere animale. Il nostro Paese ha scelto di migliorare la qualità della vita degli animali da allevamento attraverso un approccio basato su protocolli, consentendo a chiunque sia laureato in medicina veterinaria, dopo un breve percorso formativo, di valutare il benessere animale.
Le check-list preparate per questa finalità servono principalmente a emettere un punteggio al termine della valutazione. Tuttavia, non sono in grado di giudicare se questo metodo abbia effettivamente migliorato la qualità della vita degli animali o se abbia soddisfatto le aspettative etiche della società, poiché non ho trovato dati sufficienti a confermare questi risultati. Credo comunque che un approccio più professionale, magari collegiale e interprofessionale, con il coinvolgimento delle altre figure zootecniche, sarebbe stato sicuramente più efficace.
I dati raccolti tramite check-list, se accompagnati da una certificazione discorsiva che descriva in modo più dettagliato la qualità della vita degli animali in un determinato allevamento, avrebbero avuto sicuramente un impatto maggiore sugli obiettivi che ci siamo prefissati. Questo tipo di approccio sarebbe stato non solo più trasparente, ma anche più rispondente alle richieste forti e chiare dell’opinione pubblica.