Il fenomeno del mismatch, ossia la difficoltà di far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro, sembra in costante crescita, soprattutto quando a voler entrare “in pista” sono i giovani. Le  ragioni di questo fenomeno sono tante. In un articolo pubblicato su Ruminantia Mese dal titolo “Il mismatch in agricoltura” abbiamo cercato di introdurre alcune chiavi di lettura di questo argomento complesso.

Al di là del dovere etico di creare le condizioni affinchè i giovani trovino una degna occupazione, c’è da dire che una società che non agevola il ricambio generazionale ha un futuro non certo roseo. L’esperienza ci insegna che il picco della produzione scientifica è molto precoce, e quello nelle imprese è tra i 35 e i 45 anni negli ambiti più influenzati dalla creatività e dalla motivazione. Come seguito di un articolo pubblicato da Ruminantia Mese dal titolo “Cosa farò da grande” abbiamo organizzato un webinar durante il quale il sottoscritto ha voluto fare una chiaccherata con quei studenti e neolaureati che vedono il loro futuro nelle filiere del latte e della carne. Da questi momenti di riflessione e dalle tante iniziative a cui ho partecipato devo dire che con fatica sto cercando di trovare il bandolo della matassa per capire perché i giovani si lamentano di non trovare il lavoro che sognano e le imprese di non trovare collaboratori. 

Alcune certezze però le ho acquisite. Una volta le discipline in cui ci si laureava erano poche, ma dagli obiettivi molto chiari. Al termine del percorso accademico si diventava medico, ingegnere, biologo, chimico, agronomo, veterinario e quant’altro. Una sola parola definiva cosa sapevi fare, e veniva utilizzata anche nelle relazioni sociali. La durata di quel periodo formativo era di 4-5 anni, seguiti poi eventualmente dal periodo delle specializzazioni. Sia al neolaureato che al potenziale datore di lavoro erano ben chiare le competenze acquisite in questi percorsi accademici e non si pretendeva di avere “esperienza” perché durante il periodo degli studi non c’è il tempo di acquisirla. Erano le aziende a provvedere ad un adeguato periodo di formazione del neoassunto, oppure era la cosiddetta “gavetta” ad insegnare al neolaureato i rudimenti del mondo del lavoro. I docenti erano in grado di aiutare gli studenti a costruire le solide fondamenta delle conoscenze teoriche sopra le quali il giovane nel corso della sua vita lavorativa avrebbe costruito la sua professionalità e la sua carriera. I giovani avevano fretta di diventare indipendenti, ossia sposarsi e trovare un lavoro magari fisso.

Negli anni però le cose sono molto cambiate. I giovani trovano sempre meno attraente un modo di vivere programmato e stereotipato, e il lavoro routinario. Il rapido cambiamento della società spiazza spesso la capacità di adattamento di molte imprese, e quindi la loro capacità di cercare nuove competenze. Gli Atenei, dietro le indicazioni dei governi che normalmente si avvicendano nelle democrazie rappresentative come quella italiana, attivano un’enormità di nuovi corsi di laurea dai nomi spesso di difficile comprensione e memorizzazione, divisi tra lauree triennali e specialistiche, e spesso sia agli studenti che ai potenziali datori di lavoro o clienti è difficile capire cosa potranno “fare da grandi” dopo quel percorso didattico. E’ frequente ascoltare l’opinione di professionisti che stanno aiutando i giovani a fare l’inevitabile gavetta che più o meno recita così: “Questi giovani che escono dall’università non sanno nulla e non sanno fare niente, e poi hanno poca voglia di prendersi impegni che prevedono molte ore di lavoro e per tutti i giorni”. Poi è veramente difficile comprendere come può un giovane neolaureato non avere ancora chiaro cosa vuole far da grande.

Credo che come impegno morale verso i giovani e verso il nostro Paese sia necessario fare punto a capo e ricominciare dall’inizio. Nel 2023, ossia quest’anno, sono passati 40 anni da che mi sono laureato a Perugia in medicina veterinaria. Nel mio percorso lavorativo ho utilizzato in tantissimi modi il mio essere veterinario e l’osservatorio imparziale e previlegiato di Ruminantia, con i suoi tanti lettori, mi permette di fare una sorta di analisi SWOT non statica ma dinamica. Sono personalmente convinto che le lauree brevi non abbiano permesso di raggiungere l’obiettivo di agevolare la costruzione di competenze e rendere più semplice l’ingresso nel mondo del lavoro. Credo che tre anni non siano sufficienti per costruire le solide fondamenta delle basi culturali teoriche, acquisire lo stato dell’arte della conoscenza di un determinato settore produttivo o dei servizi, e trasferire le attività pratiche di base necessarie per iniziare. Quando ho modo di dare consigli ai ragazzi sul loro futuro gli consiglio caldamente di sapere già da studente cosa fare da grande, in modo da imparare giorno dopo giorno la dottrina, ossia la conoscenza quasi mnemonica di quello che la comunità scientifica e dei tecnici condivide per ottimizzare l’attività del settore prescelto. 

La percentuale di conoscenza di cosa bisogna fare in pratica (e del perché) in ogni fase del ciclo produttivo degli animali e dei prodotti da esso derivati o ad essi destinati, è ormai molto elevata. Credo poi che  sia necessario semplificare decisamente i nomi di molti percorsi di laurea perché mi accorgo che nè i giovani nè i datori di lavoro riescono a capire le competenze del candidato a cui stanno facendo il colloquio di lavoro. Questa tendenza si sta diffondendo anche nella politica, ma non nel mondo produttivo o in quello umanistico. L’uomo in genere utilizza una sola parola per definire qualcosa. Le frasi che ormai sono il nome di ministeri, corsi di laurea e partiti creano equivoci e confusione. Confondere il nome di una cosa con la sua mission è un aspetto inedito di questa società. Bisogna poi farsene una ragione, ma negli anni la figura dell’esperto si è molto appannata, per cui l’avere accumulato percorsi didattici importanti come lauree triennali, magistrali, dottorati e master non sempre crea vantaggi per entrare nel mondo produttivo e per il livello retributivo.

Quello che a mio avviso va fatto è quindi aiutare i giovani studenti universitari ad imparare la dottrina, ossia l’insieme delle conoscenze di un determinato settore specialistico. Quello poi che deve essere trasmesso ai giovani è la certezza che sarà l’intelligenza, ossia la capacità di adattarsi a situazioni nuove, a completare la loro possibilità di avere successo professionale e sociale. Purtroppo l’intelligenza non si apprende ma si allena, e come qualsisia altra disciplina “sportiva” ha bisogno di tutor, mentori e trainer. Non si deve confondere la conoscenza con l’intelligenza. Non è detto che un laureato a pieni voti sia anche molto intelligente. Questo deve essere ben chiaro a chi si affaccia sul mondo del lavoro. Ci sono persone dotate di pochi o nulli titoli di studio ma che grazie alla loro tenacia e intelligenza hanno raggiunto traguardi sociali ed economici importanti, e che sono anche spesso le persone con cui rapportarsi per trovare un lavoro.