“Cosa farò da grande?”. E’ un argomento che spesso i bambini trattano e che fa sciogliere in un “brodo di giuggiole” genitori e nonni essendo un’espressione della voglia di fare e affermarsi. Mi è spesso accaduto di chiedere “Cosa vorreste fare da grandi?” nei seminari che tengo e nei colloqui di lavoro ai giovani con cui mi sto relazionando. Il giorno della laurea e, più in generale, l’ingresso nel mondo del lavoro, sono sempre momenti gravidi di ambizioni e speranze che per molti, ma non tutti, e non necessariamente solo per chi si è laureato con i voti più alti, poi si concretizzano.

I giovani studenti delle discipline medico-veterinarie e della produzione animale si lamentano quasi sempre che il tempo degli studi è fatto di tanta teoria e nessuna pratica, e questo viene percepito come l’ostacolo principale per fare poi il lavoro sognato.

L’ingresso nel mondo del lavoro è per un giovane molto difficile. Una volta si desiderava con profonda determinazione il posto fisso, magari pubblico, e si attribuivano i fallimenti al non essere “robustamente” raccomandati. Secondo la mia esperienza, il criterio di reclutamento nel privato difficilmente tiene conto dei voti di laurea e del curriculum. Per chi per sogno, ambizione o necessità decide di cimentarsi nel mondo produttivo, esercitando la libera professione oppure lavorando in società di prodotti e servizi, l’ingresso nel mondo del lavoro è spesso fatto di stage gratuiti o poco pagati. I giovani veterinari, con un po’ di fortuna, trovano il tutor adatto per fare la gavetta, mentre per gli zoonomi trovare il lavoro più adatto è meno lineare perché gli sbocchi professionali sono molteplici.

Mi è capitato spesso di dare consigli ai giovani, sia pubblicamente che con colloqui privati, sul come muoversi dalla laurea in poi. Ben vengano le scuole di specializzazione e i master perché attraverso questi percorsi didattici si arricchiscono le competenze e anche i curriculum, ma c’è chi ha, per necessità e per virtù, fretta di lavorare. Purtroppo, a volte, gli studi post-laurea vengono anche inconsapevolmente intrapresi per procrastinare l’età delle attività lavorative, fase della vita percepita come ostile e complessa, e ciò vanifica gli sforzi di chi organizza dottorati, master e specializzazioni con il solo obiettivo di migliorare la qualità del futuro professionista. Un tempo, quando il mondo andava meno di corsa, le aziende che fornivano servizi e beni strumentali alle filiere del latte e della carne si facevano carico di investire nello junior appena assunto con adeguati piani di formazione.

Ma con quale dotazione personale un giovane veterinario, agronomo e zoonomo deve affrontare il mondo del lavoro? Fondamentale, a mio avviso, è possedere un progetto professionale definito, ossia aver ben chiaro cosa si vuole fare da grande. Procedere a tentativi per capire la propria vocazione dalla mia personale esperienza non porta lontano. Chi vuole occuparsi di zootecnia, ossia di allevamento di animali da reddito, meglio detti food animals, deve avere una conoscenza olistica generica, ma comunque approfondita, delle variabili genetiche, ambientali, nutrizionali, sanitarie e gestionali che condizionano le performance produttive, riproduttive, sanitarie ed economiche, e quindi i fenotipi, di questi animali. La ricerca scientifica e le conoscenze empiriche hanno costruito la dottrina, ossia i paradigmi da applicare per allevare o assistere le specie animali delle quali ci si vuole occupare.

Molti laureati nelle discipline di cui stiamo parlando possono trovare impiego nella pubblica amministrazione, nelle università, nei sindacati agricoli e nelle aziende di settore. In alcuni casi non è richiesto l’elevato grado di specializzazione necessario per l’esercizio della libera professione. In pratica, se ad esempio il giovane laureato ha deciso di occuparsi di bovine da latte, sarà molto agevolato se conosce dettagliatamente la dottrina, ossia l’insieme dei paradigmi che governano l’allevamento di questo animale e, nell’ambito di questi, sceglierà gradualmente su quale aspetto concentrare l’attenzione e l’aggiornamento. Il più calzante dei paragoni è quello con la professione di medico che si può esercitare in molti modi che richiedono comunque un elevato livello specializzazione. È difficile trovare un dentista che sia al contempo cardio-chirurgo o ortopedico. Le scuole di specializzazione in medicina umana sono un passaggio obbligato per l’ingresso del mondo del lavoro, a differenza delle scienze animali e della medicina veterinaria dove un percorso didattico generalista non impone una specializzazione propedeutica all’esercizio della professione. Personalmente trovo singolare il percorso didattico della medicina veterinaria. Visto il livello di specializzazione richiesto nelle varie specie animali, come si fa a somministrare lo stesso programma di studi a chi vuole occuparsi di animali da reddito o d’affezione? 

Una volta che il futuro professionista ha deciso di dedicarsi ad uno specifico ambito professionale e vuole cimentarsi direttamente con il mondo produttivo, mi sento di consigliargli di cercare di capire come sono organizzati i vari settori. Se, ad esempio, vuole focalizzarsi sulla coltivazione di prodotti da destinare all’alimentazione degli animali d’allevamento, è bene che conosca quali e quante sono in Italia le coltivazioni, chi sono i dipartimenti universitari che fanno ricerca sull’argomento, quali sono i congressi nazionali e internazionali dove si parla di questo tema, le aziende che commercializzano le commodities agricole e chi sono i professionisti di chiara fama che operano in questo settore. Di fondamentale importanza è poi il tenersi aggiornati. Per questo è bene leggere ovviamente le riviste divulgative di settore, ma soprattutto quelle scientifiche specializzate. 

Il terzo punto, più delicato perché sociologico, è l’imparare come rapportarsi con l’allevatore, cosa ancora più difficile se non si è “figli d’arte”. Tra i tanti stereotipi che inquinano la produzione primaria e che purtroppo si riverberano sulla gente, sulla politica e sull’amministrazione pubblica, c’è quello della scarsa istruzione e del basso livello di aggiornamento dell’agricoltore e dell’allevatore. In alcune zone dell’Italia come l’Alto Adige si utilizza ancora il termine “contadino” non in modo offensivo ma a volte sminuendo il vero rapporto che la produzione primaria ha con le conoscenze tecniche. Il crescente livello di scolarizzazione dovuto al ricambio generazionale e il generoso ricorso a internet per fare le migliori scelte e aggiornarsi, hanno sicuramente innalzato negli allevatori il livello di conoscenza della dottrina. Lo stereotipo del contadino ignorante condiziona anche la didattica, e altera il modo in cui i giovani si rapportano all’inizio con gli allevatori. Sento spesso commenti frustrati di giovani che, spinti da un’onesta voglia di migliorare il mondo, si scontrano con gli allevatori che non applicano i loro consigli oppure proprio non li ascoltano. Ad onor del vero questo succede spesso anche a chi propone beni strumentali, e ai tecnici dei programmi governativi o regionali di assistenza/consulenza alle aziende agricole. Gli allevatori sono spesso consapevoli di ciò che fanno male ma, per infinite ragioni, a volte non riescono ad applicare i paradigmi che conoscono. Si aspettano dal professionista, giovane o anziano che sia, una soluzione, perché si dice che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. 

A conclusione di queste considerazioni posso consigliare ai giovani di non avere fretta di concretizzare l’entusiasmo di fare qualcosa, e di ascoltare i consigli dei senior. La più affascinate corsa del mondo è, come allora la chiamavano, la Parigi–Dakar. La Dakar è una gara estrema che mette a dura prova mezzi e persone, un po’ come è la vita. Vincere le tappe è sicuramente importante, e perderle non è bene, ma quello che conta è arrivare in fondo; arrivare a Dakar. Oggi la chiamano resilienza ma è un concetto vecchio quanto l’uomo e ogni epoca gli ha dato un nome diverso.