Siamo ormai abituati, ma non assuefatti, al ricorrente “tira e molla” sul prezzo del latte alla stalla tra allevatori e industria lattiero-casearia. Allo stato attuale, un criterio condiviso da tutta la filiera per determinarlo e contrattualizzarlo non è stato ancora definito. La Coldiretti si è battuta molto affinchè l’indicazione dell’origine del latte in etichetta e nelle confezioni dei derivati del latte fosse resa obbligatoria, ma non sappiamo per quanto tempo ancora lo sarà. In un articolo di Ruminantia del 4 Giugno 2020 abbiamo pubblicato l’interrogazione dell’On. Mino Taricco con risposta del Sottosegretario L’Abbate, che faceva il punto sulla situazione dell’etichettatuta d’origine degli alimenti.

Indicare obbligatoriamente in etichetta l’origine del latte cambia indubbiamente il peso contrattuale degli allevatori e risponde ad una chiara richiesta dei consumatori, sempre più orientati verso un consumo informato e consapevole. Le posizioni delle associazioni che tutelano gli interessi dell’industria agroalimentare non sono sempre ben comprensibili. E’ recente, ad esempio, la comunicazione della posizione negativa assunta da ASSICA relativamente alla possibilità di dichiarare in etichetta e sulle confezioni l’origine della materia prima principale, ossia presente in quantità superiore al 50%, nei salumi. Dello stesso tono ci è parsa la posizione di Federalimentare, di cui alleghiamo il dossier. Ovvio è che per un’industria di trasformazione l’essere liberi di acquistare latte e carne non necessariamente in Italia è potenzialmente un grande affare, nonostante sia ormai chiaro che i consumatori italiani, ma anche stranieri, sono più propensi ad acquistare cibo prodotto con materie prime italiane. In ogni caso, una parte dell’industria agroalimentare è convinta, a torto o a ragione, che una buona agenzia di comunicazione possa far credere “lucciole per lanterne”.

Secondo la mia opinione la “messa in sicurezza” della produzione primaria di latte del nostro paese dalle perplessità dei consumatori sugli aspetti etici e salutistici, e dal non sempre maturo e lungimirante atteggiamento dell’industria lattiero-casearia, passa attraverso scelte che coinvolgono direttamente anche gli allevatori.

Prima di approfondire l’argomento è bene conoscere e condividere alcuni numeri del latte italiano.

Il nostro Paese produce circa 12.801.000 milioni di tonnellate di latte (tutte le specie, anno 2018) e questa produzione cresce ad un ritmo annuale inferiore al 2%. Dal 1° Aprile 2015, fine del regime di quote latte, ad oggi, la produzione è cresciuta di 1.013.000 ton, portando ad un aumento del livello di auto approvvigionamento dal 71% del 2015 al 78% del 2018. Il 49.3% del latte che produciamo è utilizzato come materia prima per DOP, IGP e STG. La produzione primaria di latte italiano vale 4.522 milioni di euro (prezzi base) e rappresenta il 10% di tutta la produzione primaria agricola nazionale. Il fatturato dell’industria lattiero-casearia italiana è di circa 16.000 milioni di euro, pari all’11.7% del fatturato di tutta l’industria agroalimentare italiana.

Quali sono i pilastri per la “messa in sicurezza” del latte italiano?

Secondo la mia opinione, sono gli aspetti etici , la sicurezza alimentare e l’origine della materia prima.

Gli aspetti etici

Gli aspetti etici della produzione primaria del latte sono sostanzialmente tre: la sostenibilità ambientale, il benessere animale e la sostenibilità sociale.

  • Sostenibilità ambientale. L’impatto ambientale, ossia la generazione di gas serra e ammoniaca della produzione del latte, sia esso bovino, ovino, caprino e bufalino, è stato quantificato di recente dall’ISPRA e da noi riportato nell’articolo di approfondimento “La verità sulla emissioni dell’allevamento: l’intervista ad ISPRA“. Più confusa è la situazione relativa al consumo delle risorse idriche e alla produzione di molecole eutrofizzanti come l’azoto, il fosforo e il potassio. E’ necessario che gli allevamenti intraprendano il cammino virtuoso verso una maggiore sostenibilità e lo certifichino per avere un claim che l’industria lattiero-casearia possa utilizzare.
  • Benessere animale. E’ un aspetto molto complesso che necessita di una profonda e radicale revisione dei metodi fin qui utilizzati. I PSR prevedono aiuti per gli allevatori che migliorano il benessere dei propri allevamenti ma spetta anche all’allevatore e ai sui tecnici consulenti l’onere, anche solo intellettuale, di costruire nuovi allevamenti o ristrutturare gli esistenti per migliorare oggettivamente la qualità della vita degli animali ed andare incontro alla sensibilità dei consumatori. Un esempio interessante è questa sperimentazione in corso nei suini.
  • Sostenibilità sociale. Per ridurre le emissioni e migliorare il benessere degli animali sono necessari investimenti anche ingenti. Il latte italiano prodotto in questo modo non può essere considerato una commodity alla mercè dei prezzi di mercato. Ad investire in questi aspetti deve quindi concorrere anche l’industria lattiero-casearia che, potendo sfruttare questi claim, può ambire a prezzi di vendita superiori.

La sicurezza alimentare

Il latte italiano e quello europeo hanno ormai raggiunto standard di sicurezza alimentare molto elevati relativamente agli aspetti microbiologici e di contaminanti. Questo aspetto è un asset importante che sta sostenendo i consumi nazionali e internazionali dei prodotti del latte. Anche in questo caso bisogna andare oltre a quelle che sono le prescrizioni di legge. L’uso razionale dei farmaci, ossia all’indispensabile, sotto la competenza e la responsabilità dei veterinari aiuta a contrastare il fenomeno dell’antibiotico resistenza ed a diminuire i rischi di residui di antibiotici, ma anche la concentrazione di altre molecole oggi rilevabili da analizzatori sempre più precisi. Il concetto di “LMR”, ossia il limite massimo dei residui, va profondamente rivisto per proteggere il latte dai media e dall’opinione pubblica. Un esempio di questo è stato pubblicato da Ruminantia il 24 Gennaio 2020 nell’articolo “Il Salvagente prende di mira il latte bovino“. Molto più vasto è il problema delle sostanze indesiderate di origine antropica che possono finire nel latte. Questi contaminanti possono essere residui di agrofarmaci e molecole chimiche derivanti dai processi industriali. Alcune sono cancerogene, mutagene, neurotossiche e interferenti endocrini. Un latte in cui si sia andati oltre la legge relativamente ai residui delle sostanze farmacologicamente attive, degli agrofarmaci e dei contaminanti chimici può fornire claim interessanti. Molti operatori della GDO stanno immettendo sul mercato prodotti di origine animale “antibiotic free”, ossia ben oltre quanto stabilisce la legge.

L’origine della materia prima

L’obbligatorietà di dichiarare in confezione e/o in etichetta l’origine del latte, e la possibilità di scendere nel dettaglio per quanto riguarda la regione, la città e l’allevatore, sono un aspetto fondamentale, non perché il latte italiano sia più sicuro del latte straniero ma perché il consumatore desidera queste informazioni e in questo modo si possono economicamente valorizzare le produzioni locali e far uscire definitivamente il latte non destinato a prodotti a Denominazione dalla “palude delle commodity”.

Conclusioni

Si dice “aiutati che Dio ti aiuta” per dire che non bisogna sempre delegare a terzi il proprio futuro o incolpare il “capro espiatorio” di turno nei momenti di crisi. Il latte e formaggi italiani sono già molto ricchi di argomenti ed hanno ormai bisogno di collezionare claim che possano anche anticipare le inevitabili richieste che l’industria lattiero-casearia farà agli allevatori. Oltre agli aiuti economici italiani ed europei, la produzione primaria di latte ha bisogno anche di aiuti tecnici e culturali. Disse il proverbio cinese: “Dai un pesce ad un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”.