Gli ultimi dati pubblicati da ISMEA (2015), utilizzando come fonte il “Panel Consum Nielsen”, danno un generale calo del consumo del latte e dei suoi derivati che nel caso di quello alimentare supera l’8%. Tra le tante ragioni ci sono quelle etiche dei consumatori. Già nel 2000, sul Libro Bianco sulla sicurezza alimentare, comparvero frasi come “il welfare come fattore di legittimazione delle produzioni” oppure “il consumatore non desidera cibarsi di animali che hanno sofferto”. Tali ragioni sono le principali a giustificare il repentino, e sembrerebbe inarrestabile, crollo dei consumi e hanno un’indiretta e non esclusiva responsabilità nel calo del prezzo del latte alla stalla.

Visto che lamentarsi e strillare in pratica fino ad ora non è servito a nulla, proviamo a riflettere se c’è qualche antidoto al crollo dei consumi e al prezzo del latte sempre più basso. Chi come noi chiama vacca la mucca (e non solo i toscani) ben sa che il benessere è anche un requisito per la produzione e per il reddito. Se una vacca soffre farà poco latte e lascerà presto la stalla, con il danno economico che ciò comporta. Per cui tra benessere “speculativo” e benessere “etico”, per noi che chiamiamo vacca la mucca, non c’è alcuna differenza ed il desiderio del consumatore e quello dell’allevatore è quindi lo stesso. Identico.

Il grande problema da risolvere è quello di farlo sapere al consumatore, utilizzando il suo linguaggio. Fino ad ora i sistemi ufficiali di certificazione del benessere  non hanno funzionato come claim, ossia argomenti spendibili nella comunicazione dell’industria lattiero-casearia che vanno dalla pubblicità all’etichettatura volontaria sulle confezioni. L’industria ha dovuto falsamente rappresentare l’allevamento nella pubblicità con vacche su improbabili pascoli quindi, quando i consumatori vedono, e le occasioni sono tante, il vero allevamento fatto di auto-catturanti e cuccette si sentono ingannati e presi in giro. Gli allevamenti di collina e di montagna, dove il pascolo è una importante e irrinunciabile opportunità, già producono un latte etico, sostenibile, salutare e di grande sapore che industrie intelligenti e consorzi di tutela stanno con successo “sfruttando” in chiave commerciale, restituendo agli allevatori, in termini di prezzo, quanto gli è dovuto.

Altro aspetto che crea grande disagio ai consumatori e che tutti noi evitiamo, sbagliando, di trattare è quello dell’uccisione, sia per i bovini da carne che per le vacche a fine carriera. Il consumatore è molto avvezzo ad antropomorfizzare gli animali, e non solo quelli da reddito. Una grande provocazione sull’argomento viene da Temple Grandin, grande esperta di etologia animale che negli USA ha messo a punto i requisiti di benessere di macellazione per gli impianti che forniscono carne a gruppi come Mac Donald, KFC, Burger King e Wendy’s International. La Grandin critica aspramente i sistemi complessi a ceck-list di certificazione del benessere, definendoli inutili e controproducenti. Il suo condivisibile punto di vista è quello di osservare gli animali per vedere se stanno bene. Se producono poco, sono oggettivamente ammalati e soffrono, prima e durante la macellazione, quegli allevamenti o quei macelli non sono idonei. Scrive infatti: “a me non interessa certificare pavimenti, strutture e quant’altro, mi interessa osservare gli animali e vedere quanti di loro soffrono”. Chi meglio del veterinario è il professionista che, utilizzando lo strumento dell’esame clinico, può certificare il benessere, ossia se gli animali stanno bene in quell’allevamento o se arrivano “sereni” alla macellazione? Il consumatore deve sapere che il veterinario è il medico degli animali e che la sua mission è quella di garantire il massimo stato di salute delle vacche, cosa che peraltro, come già abbiamo detto, coincide con gli interessi economici dell’allevatore. Il veterinario è l’unica categoria professionale in grado di certificarlo, utilizzando la precisa e articolata descrizione EFSA dell’animal based, verificando cioè il benessere osservando gli animali, che per noi medici degli animali altro non è che l’esame obbiettivo generale.  Certo “visitare” ogni singolo animale ai fini certificativi è in pratica complesso. Al medico degli uomini basta visitare il paziente per stilare il “certificato di sana e robusta costituzione”. Ma la soluzione esiste.

La medicina della produzione (Dairy and Meat Production Medicine) dispone di quelli che sono stati definiti score. Abbiamo a disposizione, e con una scala media di 1 a 5, il Locomotion Score, gli Hoof Score (per laminiti e dermatiti), i Cleanlinnes score (per mammella e arti), il Rumen Score, il Manure score, il Body Condition Score, il Teat score, il Skin Tent Score e l’Edema score. Se il veterinario constata che più del 15% degli animali di un reparto, o di un intero allevamento, ha punteggi negativi nei vari score non c’è in quell’allevamento un benessere certificabile. Altro accertamento che deve fare è quello di verificare se le performance produttive, riproduttive e sanitarie siano in linea con la normalità tipica di quella razza e di quell’area geografica.

In questo contesto, quale può essere il ruolo degli zootecnici? Non nel sistema certificativo del benessere ma sicuramente nel verificare e trovare soluzioni per gli aspetti strutturali, nutrizionali e manageriali che causano scarse performance e malessere. Il “certificato veterinario di benessere”, stilato da un veterinario abilitato all’esercizio della professione ha un valore legale e può, con un opportuno layout e la sapiente capacità comunicativa dell’industria, essere utilizzato come claim per rassicurare il consumatore e riportarlo ad un consumo consapevole e sereno di latte e carne; alimenti preziosi per la sua salute. La disponibilità di ciò può aiutare l’industria lattiero casearia ad abbandonare quella pubblicità di fatto ingannevole che ad oggi sembrerebbe aver provocato più danni che vantaggi. Società scientifiche come la Società Italiana di Buiatria, ma sicuramente anche le altre, faranno la loro parte qualora l’industria ritenga il benessere un claim vantaggioso per tutti, compreso l’allevatore, che possa portare ad un prezzo del latte più equo alla stalla.