Il cortocircuito tra iperproduzione di latte in Europa e calo (anzi crollo) dei consumi, soprattutto in Italia, sta dando grandi preoccupazioni su due fronti. Una preoccupazione di filiera, perché il calo dei consumi si traduce in un calo di vendite del latte e derivati, e quindi in un calo di necessità e di prezzo del latte; e un secondo fronte, più morale, di un cambiamento delle abitudini alimentari e di riduzione, e spesso scomparsa, del latte e della carne non solo nella dieta degli adulti ma anche da quella dei bambini e delle donne gestanti.
Buona parte della popolazione sta tornando alle diete antecedenti al Pleistocene, quindi molto tempo prima della comparsa degli ominidi, basate prevalentemente su frutta e verdura. Questo avveniva quando l’assetto ormonale era caratterizzato da una cospicua produzione d’insulina in grado di gestire le grandi quantità di fruttosio ingerito. Nell’evoluzione dell’uomo dopo il Pleistocene ha prevalso invece l’assetto ormonale “risparmiatore”, caratterizzato dall’insulino-resistenza e dalla tendenza all’accumulo di riserve lipidiche. Questo assetto ha reso possibile la colonizzazione dell’uomo di tutto il pianeta ed è coinciso con l’ingresso, della carne prima e del latte dopo, nella dieta dei nostri antenati. “Assetto risparmiatore” in virtù del fatto che l’approvvigionamento di questi alimenti era occasionale e quindi gli uomini dovevano vivere più giorni in un regime di digiuno e nel clima piuttosto freddo dell’era glaciale. L’ingresso delle proteine animali nella dieta, grazie una apporto completo di aminoacidi, oligoelementi essenziali e vitamine come la B12 permise lo sviluppo della massa celebrale.
E’ bene ricordare che lo sviluppo del cervello, o meglio delle sue dimensioni, e della scatola cranica nell’uomo non termina con la nascita ma prosegue fino a circa il terzo anno di vita. Pertanto la privazione di latte e carne nella donna gestante e nel bambino espone quest’ultimo a grandi rischi. Le motivazioni salutistiche legate all’abbandono del consumo di latte e carne sono facilmente e scientificamente confutabili in un dialogo sereno e argomentato. Resta ovviamente quella parte della popolazione allergica o intollerante alle proteine d’origine animale e al lattosio che inevitabilmente si deve privare di questi alimenti, sempre che queste patologie siano oggettivamente accertate utilizzando la diagnostica approvata dalla comunità scientifica. Le ragioni etiche sono invece più complesse perché implicano l’utilizzo di argomenti antropologici, filosofici e morali.
Dall’indagine richiesta dall’ Eurogroup for Animals (Eurobarometro 2016) e condotta dalla Commissione europea, emerge un quadro molto chiaro che va considerato con attenzione e che merita rapide risposte di filiera.
Alcuni “numeri”. Il 94% delle persone pensa che proteggere il benessere degli animali d’allevamento sia importante e l’82% ritiene che gli animali debbano essere tutelati meglio di quanto si stia facendo ora. Il 64% vorrebbe più informazioni su come vengono trattati gli animali nel loro paese. Nove intervistati su dieci ritiene che la UE dovrebbe fare di più per promuovere la consapevolezza dell’importanza del benessere animale. L’89% delle persone intervistate pensa che la legislazione europea dovrebbe obbligare gli allevatori ad avere cura degli animali utilizzati per fini commerciali. Il 59% sarebbe disposto a pagare di più se sulle etichette fossero riportate prove di alti standard di benessere in cui vivono gli animali.
Questo “desiderata” dei consumatori già emerse 16 anni fa sul “libro bianco della sicurezza alimentare”, importante documento Comunitario che ha ispirato e guidato tutte le scelte legislative fin qui fatte su questo tema molto delicato. Noi “addetti ai lavori” ben sappiamo che il buon allevatore è quello che assicura il massimo benessere ai suoi animali perché questo è l’unico modo per trarre profitto da questa attività non dimenticando, e non vergognandosi, dell’amore e della passione che sta dietro a questa attività e anche a quella dei professionisti che la supportano.
Purtroppo i media, per ragioni esclusivamente speculative (audience), rappresentano l’eccezione a questa regola filmando “allevamenti lager” e intervistando allevatori discutibili e incapaci dei fare il loro mestiere. Per come si è messa la situazione e per le implicazioni negative che ha sulla zootecnia e sulla salute umana, specialmente dei bambini, occorre fare di più e rapidamente. Bisogna dare risposte rassicuranti alle persone incoraggiando le visite in allevamento, risolvendo anche tecnicamente gli aspetti che disturbano, come il precoce allontanamento del vitello dalla madre, il confinamento in allevamenti privi di pascolo e l’uccisione per cibarsene. Non possiamo sdoganare questi aspetti come “stupidaggini” perché la nostra zootecnia da latte “sta in piedi” se qualcuno beve il latte e mangia la carne.
E’ necessario un grande sforzo culturale per far capire ai consumatori che l’uccisione degli animali non fa contento nessuno ma è una legge della natura, che nessuno deliberatamente vuole far soffrire gli animali e che chi lo fa deve essere isolato perché discredita un sistema. Bisogna anche far capire ai cittadini che l’etologia di un bovino, di un ovino, di un caprino e di un bufalino è molto diversa da quella dell’uomo e che l’antropomorfizzazione è pericolosa e nociva proprio al benessere degli animali e al loro rispetto etologico. E’ anche necessario avviare un dialogo sereno e scientificamente argomentato con i medici, soprattutto con i pediatri, sugli enormi rischi che corre una popolazione nel privarsi di carne e di latte, essendo il nostro assetto ormonale metabolico profondamente diverso da quello delle scimmie antropomorfe arboricole. Anche noi di Ruminantia® cercheremo di fare la nostra parte pubblicando prossimamente una nuova rubrica dal titolo “Carne e latte: veleni o elisir” dove mettere a disposizione, con il nostro stile sobrio, laico e non ideologico, documentazione scientifica sugli aspetti salutistici, etici e di sostenibilità che hanno la produzione e il consumo di latte e carne da ruminanti. Occorre però che le filiere si sforzino di trovare modi nuovi e comprensibili per certificare e divulgare il benessere degli animali in quegli allevamenti dove questo si fa realmente, e sono la maggior parte, e con costi quasi mai ripagati dall’industria di trasformazione.
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