Più d’uno sognerebbe di poter tornare ad una dimensione piccola e familiare della propria azienda di vacche da latte. Era tutto più bello e più facile. Si lavorava tanto ma si viveva in armonia (sarà vero?); i margini economici erano più ampi di quelli di oggi; c’erano meno burocrazia e meno controlli. C’era anche meno scienza ma, in fondo, chi se ne frega.
E, soprattutto, non c’erano dipendenti. Quelli che c’erano erano italiani e ci si capiva.
Inutile nascondersi: una buona parte delle installazioni di robot di mungitura ed affini sono motivate dalle difficoltà di gestire la manodopera. Poi certo ci sono i dati, c’è l’innovazione, c’è il benessere degli animali. Ma se non fosse così difficile gestire il personale, avremmo forse un quarto dei robot installati.
Eppure, tra le abilità fondamentali da acquisire nella gestione di un’impresa, c’è quella parte di lavoro che quelli bravi chiamano gestione delle risorse umane.
Ho conosciuto aziende con una pessima gestione delle persone. Alcune di queste persone erano consapevoli del tipo di trattamento loro riservato e, esattamente per questo motivo, pretendevano ed ottenevano una paga superiore. Comprensibilmente, alzarsi al mattino e sapere di dover sottostare a lavori mal organizzati, quando non assurdi, ha come contropartita la necessità di ricevere stipendi più alti. In assenza, ognuno di noi cambierebbe subito lavoro, avendone la possibilità.
Non riusciamo a capire che le persone rendono se motivate, più che se pagate. Ognuno di noi, dunque, anche i nostri dipendenti e collaboratori, dà il massimo delle proprie possibilità quando è coinvolto, quando è apprezzato, quando è artefice in prima persona dei risultati.
Guarda caso, le aziende dove trovi personale ben organizzato e ben motivato (ci sono procedure, sono consapevoli di quello che fanno, i lavori seguono un filo logico, ecc.) sono aziende dove il titolare esprime un buon livello di soddisfazione per i propri dipendenti. Delle due l’una: o è stato fortunato ad imbattersi in un filotto di persone in gamba oppure il modo di gestirle fa la differenza. Esiste anche una la terza possibilità: che il titolare non sappia scegliere bene le persone da inserire in azienda. In ogni caso si ha sempre a che fare con il titolare o con chi questi ha delegato a gestire il personale.
Qualche anno addietro, in un’importante business school, il docente riferiva il caso studio di un’azienda molto nota (non in campo agricolo) presso la quale il personale, pur guadagnando decisamente bene, era ampiamente demotivato.
I soldi, questo era l’insegnamento, gratificano ma non motivano.
Definito il compenso equo e di mercato per la funzione che stiamo chiedendo al nostro collaboratore, siamo a metà dell’opera.
Si tratta ora di dedicargli del tempo, di ascoltarlo, di indirizzarlo e di correggerlo, se necessario. Si tratta di istruirlo, di farlo crescere, di affidargli maggiori responsabilità. Di verificarne l’affidabilità ed i risultati. Di modificare le mansioni e l’organizzazione del lavoro; di verificare il livello di coinvolgimento nel lavoro di squadra; di gestire le tensioni nella squadra stessa.
Del resto se vogliamo che sia autonomo nel suo lavoro, e che magari ci sostituisca in alcune mansioni, come potrebbe essere capace senza un percorso di apprendimento?
Potrebbe anche succedere che dobbiamo “studiare” per imparare a gestire il personale. Del resto, l’evoluzione delle aziende richiede che acquisiamo diverse nuove abilità. Non è scritto in nessun luogo che si debbano avere innate capacità di gestire gruppi di lavoro. Dunque imparare è un passo evolutivo per le aziende.
Se il nostro gruppo di lavoro non funziona, con ogni probabilità, prima di attribuire responsabilità all’altrui incapacità, vale la pena che ci guardiamo allo specchio.
Ogni azienda, in qualunque settore, parte sempre dal vertice!
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