Il 6 ottobre 2022 a Bologna, Eurofins ha promosso una “singolare” e molto interessante giornata di riflessione sulle micotossine, durante la quale hanno dato il loro contributo professionalità ed esperienze diverse. Si è quindi giunti alla conclusione che il ruolo di questi contaminanti degli alimenti zootecnici nei ruminanti non è stato completamente chiarito, che serve un maggior impegno della comunità scientifica e che deve aumentare la consapevolezza verso il tema delle micotossicosi.
Nel mio intervento dal titolo “Se, quali e quante micotossine fanno realmente male agli animali”, ho voluto dare un contesto a questo complesso argomento di salute umana ed animale. Le diverse professionalità che operano in zootecnia devono necessariamente cooperare perché, se si vuole risolvere il problema, è necessario partire dalla campagna, ovvero da una scelta corretta delle cultivar, dalla loro gestione e dai metodi di conservazione e stoccaggio degli alimenti zootecnici.
È altresì importante conoscere quali siano le micotossine che fanno realmente male ai ruminanti, ossia che sono in grado di interferire negativamente sulle produzioni, sulla salute e sulla fertilità, a quale dosaggio procapite lo fanno e di quanto tempo hanno necessità per agire, avendo chiaro il concetto che esse sono sempre presenti negli alimenti zootecnici ma in quantità variabile.
Quello che colpisce molti di noi è che, nonostante sia un argomento di cui si parla da molti anni, esista una commissione EFSA (CONTAM) che si occupa anche di loro, le metodiche analitiche siano molto evolute e, soprattutto i mangimifici, abbiano nettamente migliorato i protocolli di prevenzione, non si possa ancora dare una risposta certa ed univoca all’interrogativo “se, quali e quante micotossine fanno realmente male agli animali”.
Come sta avvenendo negli altri settori della tecnica, è necessario inquadrare meglio, anche da un punto di vista umanistico, la questione delle micotossicosi per una serie di ragioni molto semplici.
Nell’allevamento dei ruminanti, il THI, il fotoperiodo, la gestione, la nutrizione e le malattie, interferiscono sensibilmente sulle performance produttive, riproduttive e sanitarie degli animali. Nonostante il fatto che le bovine da latte siano animali poliestrali annuali, la frequenza dei parti si concentra in determinati mesi dell’anno e la prevalenza di alcune patologie, come ad esempio la chetosi sub-clinica e le zoppie non trasmissibili, ha picchi a fine estate e in autunno, mentre le mastiti sia cliniche sub-cliniche in piena estate. La produzione media pro-capite, a parità di giorni medi di lattazione e THI, è significativamente più alta, nell’emisfero boreale, nei mesi di aprile e maggio rispetto a ottobre novembre. La mancanza di una “granitica” consapevolezza della stagionalità della produzione di latte e dei suoi titoli, della fertilità e delle malattie, soprattutto metaboliche, induce una parte degli allevatori nell’inganno quando cercano di risolvere i problemi. Se si adotta una nuova razione, con nuovi componenti come mangimi o additivi, a fine inverno, è statisticamente molto probabile che in allevamento la produzione aumenti e le bovine stiano meglio perché comunque ciò avviene in virtù di un fotoperiodo e di un THI favorevole. Al contempo, se si fa questo in estate o inizio autunno, i risultati potrebbero non essere incoraggianti anche a causa di un THI e un fotoperiodo non ideale e dello stress da caldo estivo. Un approccio superficiale, frettoloso e poco professionale sia degli allevatori che dei professionisti che li seguono, porta a cercare colpevoli più che soluzioni, se non addirittura capri espiatori.
Le micotossine, sia quelle regolamentate che le altre, quando vengono utilizzate in modalità “capro espiatorio” sono spesso tirate in ballo proprio a fine estate e inizio autunno quando negli allevamenti c’è il picco dei problemi, si aprono le nuove trincee, e si utilizza il fieno e tanti nuovi concentrati. Spesso si addossa alle micotossine la colpa di un’incapacità diagnostica dei problemi di allevamento e ciò può essere anche vero, a patto che siano stati fatti test qualitativi e quantitativi di questi contaminanti e si abbia ben chiaro quale sia il loro meccanismo d’azione.
Questo approccio irrazionale al problema della contaminazione da micotossine degli alimenti ha portato a ridurre la percezione del loro potenziale ruolo eziologico nei problemi sopra elencati. Per recuperare il tempo perduto e gestire in pratica, sia a livello di azienda agricola e zootecnica che di mangimificio, le evidenze scientifiche che sembra stiano arrivando sempre più copiose sui ruminanti, è bene immaginare come inserire correttamente le micotossine nella lista dei fattori di rischio ed eziologici delle patologie e delle performance produttive.
In primis è necessario uniformare la scala di valori con il quale si determina il cut off di tossicità a livello di evidenze scientifiche, di referto di laboratorio e di limiti di legge per le micotossine regolamentate. Tale “suggerimento” aiuta sicuramente nel monitoraggio e nella comprensione del rischio quando c’è il ritorno del referto analitico.
Un secondo aspetto da considerare è quello di legare sia le micotossine regolamentate che quelle non regolamentate ad un determinato meccanismo d’azione e ad un determinato organo o funzione metabolica, senza dimenticare mai che c’è una profonda differenza di sensibilità tra monogastrici e ruminanti. In questi ultimi il microbiota ruminale è in grado di potenziare o depotenziare gli effetti di questi contaminanti.
Non ultima, in ordine d’importanza, è la standardizzazione di piani di monitoraggio sui singoli alimenti zootecnici e la consapevolezza del fatto che anche dosaggi molti bassi di micotossine possono dare luogo ad una sinergia tossica negli animali. L’avere a disposizione tutte queste informazioni permette ai dipartimenti di controllo qualità dei mangimifici e ai nutrizionisti e alimentaristi di prendere le più giuste decisioni di fronte ad un lotto di foraggi o di concentrati contaminati.
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