Anche se il metodo per fare le razioni per le varie fasi produttive delle bovine da latte dovrebbe essere solo uno, nella pratica quotidiana ne esistono differenti. La nutrizione non è una scienza deterministica ma probabilistica, che non richiede necessariamente un approccio empirico ed è gestita da complesse equazioni spesso concatenate tra di loro. Il nutrizionista ha il compito di descrivere ai modelli di calcolo le materie prime che intende, o può, impiegare, utilizzando analisi che devono essere molto precise e i relativi costi unitari. Molto accurati devono essere anche gli input descrittivi degli animali a cui si vuole fare il piano alimentare.

Una volta per fare le razioni bastava carta, penna, calcolatrice o tutt’al più Excel, ma negli ultimi decenni con l’avvento di sistemi come il CNCPS la nutrizione è stata modellizzata, per cui i metodi utilizzati nel passato di fatto non sono più utilizzabili.

I ruminanti, e quindi le bovine da latte, hanno un’elevata capacità di adattamento all’ambiente circostante, e quindi anche agli alimenti che il luogo in cui vivono mette loro a disposizione nei vari mesi dell’anno. Per comprendere intimamente ciò si deve avere bene presente che i ruminanti “processano” il cibo ingerito trasformandolo in buon parte in microbiota ruminale e acidi grassi volatili, e che la composizione chimica del pool dei microrganismi ruminali è sufficientemente costante a prescindere dal tipo di alimenti ingeriti. A fare una sostanziale differenza è il rapporto acido acetico/acido propionico, perché dipende dal rapporto tra carboidrati strutturali (NDF) e carboidrati non strutturali (NSC) della razione.

A condizionare il tipo di alimenti che vengono utilizzati per nutrire le bovine sono la loro disponibilità, i prezzi ed eventuali vincoli e divieti imposti dai disciplinari di produzione. Spesso succede che i pregiudizi, o la mancata conoscenza della fisiologia digestiva e della nutrizione dei ruminanti, portino a ritenere che alcuni alimenti e i loro rapporti relativi nella razione condizionano sensibilmente il successo di un piano alimentare. La razza bovina frisona, anche conosciuta come Holstein, è quella più diffusa nel mondo e ha un elevato grado di omogeneità genetica dovuto al fatto che i riproduttori maschi utilizzati sono pochi e ubiquitari. Se si analizzano le performance si può notare che anch’esse sono ormai piuttosto omogenee, mentre non si può dire lo stesso per il tipo di alimenti utilizzati per alimentarle. La latitudine, il clima e la disponibilità d’acqua condizionano il tipo di foraggi utilizzabili, mentre la gamma di concentrati impiegabile è ormai simile, se non identica, in ogni angolo del globo.

In conclusione si può quindi affermare che i ruminanti, e quindi le bovine da latte, hanno fabbisogni specifici di nutrienti e non di particolari alimenti. A titolo d’esempio riportiamo una tabella dove vengono messi a confronto i fabbisogni di bovine da latte in prossimità del picco produttivo. Durante i primi mesi di lattazione i fabbisogni nutritivi sono elevatissimi e tutte le specie e le razze dei ruminanti da latte fanno esperienza di un bilancio energetico e amminoacidico negativo in un momento in cui deve essere massima la produzione di latte, si dovrebbe avviare una nuova gravidanza e il sistema immunitario ha la necessità di disporre di risorse nutritive ingenti per essere efficiente.

Nei modelli di calcolo delle razioni come da tabella allegata i fabbisogni sono espressi come nutrienti e non come alimenti, anche se esistono quantitativi minimi e massimi consigliati per quasi tutte le materie prime.

L’insilamento dei foraggi e di alcuni cereali è una grande evoluzione della nutrizione dei ruminanti. La velocità del cantiere di raccolta e stoccaggio e la maggiore digeribilità totale rispetto alla conservazione per essiccazione li rendono molto funzionali all’aumento della loro resa in razione. L’insilamento conferisce ai prodotti anche una maggiore appetibilità, e questo è indubbiamente un vantaggio. Il disciplinare di produzione del formaggio Parmigiano Reggiano e dell’STG Latte Fieno ne fanno divieto esplicito sia nell’alimentazione degli animali, di qualsiasi età, che per la detenzione in azienda. Nel caso del Parmigiano la scelta è stata fatta per ridurre la presenza di spore clostridiche che potrebbero contaminare i latte e quindi dare difetti merceologici piuttosto gravi ai formaggi. Nella STG latte fieno sono invece vietati solo perché ritenuti responsabili di conferire ai formaggi sapori e odori anomali, o meglio non tipici.

L’utilizzo di solo fieno come foraggio ha anche altri grandi “effetti collaterali”, motivo per il quale gli insilati si sono diffusi così tanto in tutto il mondo. Abbiamo già detto che un grosso limite è proprio dovuto alla digeribilità. Se per necessità o per scelta si vuole evitare l’utilizzo degli insilati senza compromettere le performance produttive, riproduttive e sanitarie degli animali, si può fare ma si deve disporre di fieno ad elevata digeribilità. La digeribilità può essere intrinseca, scegliendo graminacee piuttosto che leguminose e piante giovani. Uno stratagemma utilizzabile è anche quello di aggiungere fibre provenienti da concentrati come le polpe di barbabietola, i cruscami e le buccette di soia, che stimolano la crescita dei batteri che fermentano le fibre e quindi indirettamente migliorano la degradabilità ruminale dei carboidrati strutturali dei foraggi.

L’essiccazione artificiale rispetto a quella naturale al sole certo un pò aiuta, e il rispetto dei fabbisogni nutritivi indicati dal CNCPS e/o dal NASEM 2021 aiuta anche di più. Per rendere più digeribile un fieno è importante che la dieta abbia almeno il 10% di proteina rumino degradabile, e in particolare il 5% di quella solubile. Per raggiungere questo obiettivo l’utilizzo di urea zootecnica sarebbe di grande aiuto perché i batteri cellulosolitici, ossia quelli che fermentano le fibre, sono “avidi” di azoto non proteico. I ruminanti hanno trovato una grande nicchia ecologica nella quale collocarsi proprio per la loro capacità di digerire la fibra e l’azoto non proteico, cosa che i monogastrici non sono in grado di fare. In alcuni disciplinari di produzione di formaggi DOP l’utilizzo dell’urea è vietato a prescindere dalla dose utilizzata, e la motivazione è ai nutrizionisti poco comprensibile.

Uno dei meccanismi biochimici più antichi che ha rappresentato un vantaggio evolutivo importante per i ruminanti è il ciclo dell’urea, che ha l’obiettivo di rendere inoffensiva l’ammonica prodotta dalle degradazione ruminale e intestinale delle proteine e dal catabolismo degli aminoacidi, ed in particolare l’ornitina, la citrullina e l’arginina. La sintesi dell’urea avviene principalmente, ma non esclusivamente, a livello epatico. La reazione tra ammoniaca e acido carbonico forma carbammato (ammide dell’acido carbonico), che poi viene trasformato in urea (diammide dell’acido carbonico). L’urea non è tossica per l’organismo e può essere eliminata attraverso le urine e il latte, ma una parte importante di essa viene riportata nel rumine attraverso la saliva. Si stima che dal 50 al 70% dell’azoto ingerito venga trasformato in urea, e che il 30-45% di questo ritorna al rumine come azoto ureico, anche detto non proteico.

A titolo d’esempio, una bovina a cui viene somministrata una razione al 16,5% di proteina della sostanza secca, ingerisce circa 3700 di proteina grezza al giorno e ciò corrisponde all’incirca a 600 gr di azoto. Di questa quantità circa 350 grammi vengono trasformati dal fegato in urea. Di questi, si stima che ben 220 gr tornino nel rumine come azoto ureico a disposizione della flora microbica essenzialmente cellulosolitica, ossia quella che fermenta specificatamente le fibre.

In generale si può affermare che l’azoto ureico riciclato contribuisce per il 37,5% dell’azoto batterico rumine. Il riciclo dell’urea conferì agli individui che lo svilupparono un indubbio vantaggio evolutivo. Prima della domesticazione poteva essere molto frequente che i ruminanti si trovassero in situazioni di scarsa disponibilità di alimenti, cosa che mette il rumine in grande difficoltà perché il microbiota ruminale in queste condizioni può subire perdite ingenti. Il fatto che grazie al catabolismo degli amminoacidi si possa produrre urea da indirizzare nel rumine tramite la saliva può permettere ai batteri ruminali di resistere ed essere prontamente disponibili a processare alimenti una volta terminata la penuria alimentare. La bovina da latte può produrre giornalmente grandi quantità di urea, per cui è difficile trovare una spiegazione nel divieto assoluto di utilizzarla nell’alimentazione di questi animali.

Alla domanda posta dal titolo di questo articolo si può quindi tranquillamente rispondere di sì, a patto che si facciano i fieni come si deve, che si seguano attentamente le predizioni che i modelli riescono a fare e non ci siano limitazioni irrazionali nell’aggiunta di urea zootecnica nella razione ai dosaggi consigliati dal software di razionamento.