Il cumulo delle conoscenze è ormai talmente vasto che nessun essere umano può dire di sapere tutto. Geni eclettici e multiformi del passato come Leonardo da Vinci oggi non potrebbero esistere a meno di non occuparsi di un solo aspetto del sapere umano.
A mano a mano che la cultura umanistica e scientifica acquisiscono conoscenze, si eleva il grado di specializzazione degli uomini che contribuiscono a costruirle, gestirle e diffonderle.
Molti sono gli esempi che si possono fare. Probabilmente, se due medici come un cardiochirurgo e un endocrinologo si parlassero utilizzando il lessico tipico delle loro specializzazioni non si capirebbero pur essendo entrambi laureati in medicina.
Tutti abbiamo avuto l’esperienza di parlare con avvocati, notai, medici, meccanici, informatici, esperti di comunicazione o sportivi capendo poco o nulla del loro discorso quando utilizzavano il paniere dei termini tecnici.
Esistono poi gruppi d’interesse che ricordano molto le tribù nelle quali vivevano i nostri antenati, e che utilizzano nell’ambito della lingua italiana un set di parole e di espressioni gergali ai più incomprensibili.
Ricordo come da giovane Ufficiale veterinario fui assegnato alla Scuola Militare d’Equitazione di Montelibretti. La più grande difficoltà che ebbi all’inizio non fu con i cavalli ma fu quella di capire cosa dicessero i Cavalieri quando parlavano tra loro in un gergo in cui molte delle espressioni utilizzate non erano presenti nei vocabolari di lingua italiana oppure avevano un altro significato.
Si stima che le parole italiane siano circa 2 milioni ma che se ne utilizzi in media un numero enormemente più ridotto che si aggira intorno alle 250.000. L’italiano medio utilizza abitualmente circa 2.000 parole.
Oltre ai vocaboli italiani la nostra lingua ha più o meno ufficialmente adottato lemmi inglesi o addirittura vocaboli dal greco antico e dal latino ma anche dei modi di dire.
Le motivazioni di questa complessità sono dopo tutto molto semplici da comprendere. La conoscenza del gergo e delle parole utilizzate da gruppi di interesse sono il primo e più importante segno d’apparenza. Basta frequentare i gruppi Facebook o ascoltare i membri di una qualsiasi associazione per capire cosa intendo dire.
Il secondo motivo per cui spesso professionisti e professori utilizzano un linguaggio raffinato e forbito è per dimostrare a chi attonito li sta ad ascoltare che loro sono molto ferrati nella materia di cui sono cultori. Basta vedere con quale grafia i medici scrivono le prescrizioni per comprendere questa affermazione.
Esiste anche chi utilizza un linguaggio incomprensibile ai non addetti ai lavori perché molti dei concetti che esprime non gli sono completamente chiari.
Esiste anche quella che ormai viene definita la “supercazzola”, ossia il parlare senza dire nulla.
Ad onor del vero ci sono anche grandi esperti di materie complesse che hanno il dono naturale, ma coltivato con cura, di far capire a tutti argomenti molto difficili. Questi personaggi sono i veri creatori e depositari del sapere, e sono quelli che ritengono che il diffondere la cultura sia la loro mission principale.
L’uomo attraverso il linguaggio ha potuto far evolvere il suo complesso cervello e dominare la natura. Il comunicare nelle piccole tribù ancestrali, che poi sono evolute in città e nazioni, ha permesso all’uomo di ottenere il benessere che oggi ha raggiunto ed è stato un potente antidoto per dominare la sua natura ferina e distruttiva, tenere a bada la sua innata aggressività e cooperare per il bene comune.
Di tentativi di avere una lingua universale l’uomo ne ha fatti alcuni, come quello nel mito della Genesi (11, 1-9) conosciuto con il nome Torre di Babele, il tentativo di diffusione del latino ai tempi dell’Impero romano, dello spagnolo quando la Spagna fu una potenza coloniale e dell’inglese ad opera dell’impero britannico.
Ad oggi la lingua “più” universale che conosciamo è ancora l’inglese.
Il piccolo grande mondo della produzione primaria di latte e carne utilizza un ben definito set di parole e molti termini gergali.
Mi capita spesso di dire a giovani neolaureati in medicina veterinaria, produzioni animali o scienze agrarie che prima di insegnare qualcosa agli allevatori è bene che imparino il loro linguaggio e i loro modi di dire, compresi i tanti termini dialettali che arredano le conversazioni agricole e zootecniche in ogni angolo del nostro paese.
Chi alleva gli animali per la produzione di cibo per l’uomo è, di fatto, una piccola grande tribù che dialoga spesso utilizzando le opportunità che mette a disposizione l’ecosistema digitale come le App di messaggistica tipo WhatsApp e i social media e gli eventi in presenza come le Fiere e i convegni che spesso organizzano le associazioni o le ditte.
Dove la produzione primaria pecca, perché completamente assente, è il dialogo con la gente comune, soprattutto con quelli che vivono in città, con i giornalisti, con gli accademici di discipline umanistiche e scientifiche, e con la classe medica.
Presi dal complicato fare quotidiano non ci accorgiamo di quanto strano, complesso e incomprensibile sia il dialogo che si svolge nella tribù della produzione primaria e di chi fornisce loro prodotti e servizi.
A volte utilizziamo involontariamente e in assoluta buona fede termini come ad esempio “gabbie per i vitelli”, “autocatturanti” e “scartare un animale” che prestano un facile fianco a chi di denigrare gli allevamenti ne ha fatto una professione e un profittevole business.
Quello di cui stiamo parlando vale anche per molti dei politici che siedono in Parlamento e in Senato e che, con le loro azioni, prendono decisioni che condizionano la nostra vita quotidiana e il nostro futuro.
Sono loro a dover capire quando noi parliamo. I Ministri, ma anche i membri delle Commissioni della Camera e del Senato e i Capo Gabinetto, non sono quasi mai specializzati nella materia di cui si devono occupare in un governo della Repubblica Italiana.
Il linguaggio che meglio comprendono è quello che utilizzano quando devono parlare alla popolazione attraverso i media.
Frasi brevi, semplici e pronunciate con quella cantilena che è ormai diventata bipartisan perché utilizzata indifferentemente dalla sinistra e dalla destra. Sono veramente pochi i politici che fanno eccezione e non utilizzano il linguaggio populista.
Esistono poi gruppi di persone colte, che comunque hanno un ruolo di orientamento sociale e politico, che amano il linguaggio forbito e complesso che gli serve anche per accreditare chi vuole comunicare loro qualcosa.
La stampa e le televisioni, ovviamente quelle generaliste, sono alla perenne ricerca degli scoop, perché è con essi che si vendono i giornali e aumentano gli ascolti televisivi.
La retorica del povero allevatore che lavora H24 anche nei giorni di festa per fare buon cibo per la gente non fa più notizia.
Come ha ben spiegato Renè Girard nel suo saggio “Il capro espiatorio”, gli atteggiamenti vittimari sono funzionali a creare “capri espiatori” e l’allevare gli animali da cibo oggi è forse quello che attrae chi del creare capri espiatori ne ha fatta una missione di vita e un lavoro.
In conclusione, quello che, secondo noi, va fatto è:
- Quando la produzione primaria deciderà che, al di là dei dialoghi privati che fa con le persone che vanno a visitare le loro aziende, è giunto il momento di raccontare gli allevamenti su vasta scala, è bene che decida con quali linguaggi parlare agli interlocutori.
- Lo stesso dovrebbe fare l’industria lattiero-casearia e i Consorzi di tutela.
- La gente comune, i politici, i giornalisti e i “salotti buoni” utilizzano linguaggi spesso molto differenti.
- Dialogare o entrare in polemica con gli attivisti vegani e con alcuni movimenti presunti animalisti non serve a nulla in quando non sono in genere disponibili a capire e dialogare ma solo affermare i loro pregiudizi (confirmation bias).
- La classe più colta della popolazione italiana che ha a cuore la salute dell’uomo e il futuro del cibo naturale, se vuole farsi capire e non solo dimostrare di sapere le cose, quando si rivolge alla gente deve utilizzare una retorica comprensibile e tagliata su misura per il pubblico che vuole raggiungere.
- In ogni caso quello che va narrato deve essere solo e null’altro che la verità perché “le bugie hanno le gambe corte” e con il detto non detto non si va da nessuna parte.
- E per concludere non ci sono argomenti tabù di cui è meglio non parlare.
Scrivi un commento
Devi accedere, per commentare.