Medici ed opinione pubblica stanno giustamente pressando gli allevamenti per ridurre all’indispensabile l’uso degli antibiotici in modo da evitare che sempre più batteri diventino resistenti a questi preziosi farmaci. Nell’allevamento delle bovine da latte l’impiego di antibiotici è piuttosto esiguo ma tutti devono fare la loro parte.
Abbiamo affrontato dettagliatamente questo aspetto nell’articolo: “I dati scagionano in buona parte le bovine da latte dall’accusa di contribuire all’antibiotico resistenza“.
I vitelli sono ad alto rischio di mortalità per le malattie infettive. Negli allevamenti più efficienti si cura con estrema attenzione l’igiene, la bio-sicurezza, la climatizzazione, la profilassi vaccinale e la nutrizione. Una tendenza messa in pratica nel passato, ma che purtroppo è ancora in uso in molti allevamenti, prevedeva l’utilizzo della metafilassi antibiotica, ossia la somministrazione sistematica a tutti i vitelli di antimicrobici per via orale nel latte o in casi estremi per via iniettabile. Un tempo si consigliava questa pratica, come anche il trattamento di tutte le bovine con gli antibiotici alla messa in asciutta o dopo il parto per prevenire le mastiti e le infezioni dell’utero, pensando di far bene, almeno fino a che l’OMS non ha lanciato l’allarme dell’antibiotico resistenza. Per riflettere con qualche dato in più: nel report 2014 (Dairy 2014) del National Animal Health Monitoring System della statunitense USDA viene riportato che il 40.4 % dei vitelli degli USA, nel 2013, è stato allattato con latte “medicato” con tetracicline e neomicina.
Prima di arrivare a trattare con gli antibiotici solo ed esclusivamente i vitelli o le bovine ammalate o ad alto rischio bisogna ulteriormente rafforzare le misure d’igiene e di profilassi vaccinale, e rivedere radicalmente la nutrizione e le tecniche d’allevamento. La nutrizione, soprattutto quella clinica e quella funzionale, può fornire un valido aiuto per affrontare con successo il percorso virtuoso della riduzione dell’uso degli antibiotici all’indispensabile nella vitellaia. Tra le varie molecole nutraceutiche adottabili ci sono i prebiotici, tra i quali si distinguono i MOS (mannano oligosaccaridi) che derivano dalla “rottura” e successiva lavorazione delle pareti cellulari dei lieviti. Il Saccharomyces cerevisiae, anche detto lievito di birra, può essere utilizzato anche come probiotico. A questa classe di microrganismi, che hanno un effetto positivo sulla salute umana e animale, appartengono anche i batteri lattici e i bifidobatteri.
Il Saccharomyces cerevisiae (SC) è un organismo unicellulare che appartiene al regno dei funghi e che fin dall’antichità è stato reclutato dall’uomo per produrre il pane e le bevande alcoliche. La sua parete cellulare rappresenta il 15-20% del peso totale della sostanza secca. Nel SC sono presenti una significativa quantità di carboidrati, la cui concentrazione dipende molto dalle condizioni in cui è cresciuto. Questi possono essere intracellulari come il glicogene (16-20%) e il trealosio (6-10%) oppure costituenti della parete cellulare come i β-glucani, polisaccaridi insolubili che possiamo trovare anche in alcuni semi vegetali. I β-glucani sono in grado di adsorbire e quindi legare micotossine, virus e batteri e hanno la capacità di stimolare l’immuno-competenza dei vitelli. Molto interessante da un punto di vista biologico è il secondo dei componenti più importanti della parete cellulare del SC, ovvero i mannani, tra i quali il D-mannosio è il monosaccaride più importante. I mannano oligosaccaridi (MOS) e i β-glucani arrivano indenni nell’intestino degli animali che li ingeriscono e sono in grado di svolgere funzioni biologiche molto interessanti per la salute intestinale. Molti batteri Gram-negativi, come quelli appartenenti alla famiglia delle enterobacteriacea, sono dotati di pili o fimbrie, ossia di filamenti al termine di quali si trova una molecola proteica (adesina) in grado di far aderire il batterio alle cellule epiteliali, rendendolo in grado di esercitare la sua azione patogena. A questa famiglia appartengono molti batteri, alcuni dei quali sono coinvolti nelle malattie enteriche dei vitelli, come coli, salmonelle, klebsielle, serratia e yersinia. Il D-mannosio dei MOS ha un’elevata affinità nei confronti delle adesine batteriche per cui esercita un ruolo “antibiotico” interessante. I MOS hanno anche un’azione positiva nei confronti del sistema immunitario, un’azione antiossidante e in generale migliorano l’integrità della mucosa intestinale. I mannano oligosaccaridi, inoltre, si sono dimostrati essere un fattore di crescita del bifidobacterium, la cui importanza clinica nella salute intestinale è testimoniata dall’uso probiotico che se ne fa.
Conclusioni
La riduzione all’indispensabile dell’uso degli antimicrobici nella medicina umana e animale è una necessità non più procastinabile, anche se di difficile attuazione pratica. Igiene, bio-sicurezza, selezione genetica e profilassi vaccinale possono fare molto, come l’uso di alcuni nutrienti di comprovata azione clinica. Questo tema così complesso e delicato richiede un atteggiamento severo nel valutare cosa realmente si può fare per coniugare la salute degli animali, e quindi il loro benessere, il diritto ad un reddito adeguato per gli allevatori e la tutela della salute umana. Dei tanti principi attivi “naturali” reclutabili in allevamento con effetto antibatterico diretto o in grado di stimolare le difese naturali dell’organismo, è necessario selezionare quelli dotati di trial clinici positivi, plausibilità del meccanismo d’azione e pubblicazioni scientifiche sulle riviste indicizzate.
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