Il titolo di questo articolo può essere ingannevole perché, nel gergo zootecnico di questi ultimi anni, per nutrizione estrema della bovine da latte s’intendono le razioni ad altissima concentrazione di amidi e “supergrassate” che andavano di moda qualche anno fa.

In questo articolo invece ci riferiamo “provocatoriamente” ai razionamenti per ruminanti da carne e da latte in cui si utilizzano principalmente, o esclusivamente, alimenti che l’uomo non può utilizzare.

Le nostre filiere del latte e della carne non hanno mai dedicato il giusto tempo a raccontare ai consumatori che solo pochissimi degli alimenti utilizzati dai ruminanti potrebbero essere destinati all’alimentazione umana. I foraggi, ad esempio, non possono essere utilizzati dall’uomo, come tutti quei sottoprodotti presenti nei mangimi, o acquistabili direttamente dagli allevatori, che altro non sono che scarti dell’industria molitoria (cruscami), dello zucchero (borlande, melasso e polpe di bietola), dell’estrazione dell’olio (soia, mais, colza e girasole), del riso (pula e farinaccio), del cotone della produzione dell’alcool, della birra e delle amiderie.  Ci sono poi scarti industriali più complessi, come verdure o alimenti scaduti (biscotti, pane e dolciumi), che solo gli animali possono valorizzare in modo che non diventino rifiuti da smaltire nell’ambiente.

L’industria mangimistica è nata tantissimi anni fa proprio con l’obiettivo di dare un valore tecnico ed economico ai cruscami di grano tenero e di grano duro, utilizzandoli come ingrediente principale dei mangimi. Il mangime non ha mai trovato i giusti argomenti per qualificare la sua immagine nei confronti dei suoi utilizzatori. L’industria mangimistica si è trovata costretta a difendersi da una percezione tendenzialmente negativa dei suoi effetti sulla salute degli animali e sulla qualità della carne e del latte. Espressioni come ”chissà cosa c’è dentro quel pellet” oppure “assaggi questa carne, è genuina perché non ha mai mangiato il mangime”, sono entrate prepotentemente nel sentire collettivo.

In un contesto di crescente sensibilità etica dei consumatori verso il rispetto dei diritti degli animali e dell’ambiente, il mangime e, più in generale, l’uso dei sottoprodotti può trovare molti e nuovi argomenti di riqualificazione. Valorizzare ulteriormente i sottoprodotti e ridurre al minimo l’impiego dei cereali (per cui i ruminanti competono con l’uomo) che competono con l’uomo nell’alimentazione dei ruminanti richiede una grande conoscenza della nutrizione animale. Oggi, negli allevamenti, troviamo ruminanti da latte e da carne che hanno potenziali produttivi inimmaginabili fino a qualche anno fa, figuriamoci rispetto a quando nacque l’industria mangimistica. Grazie a modelli come il CNCPS e ad una migliore conoscenza del rumine, dell’intestino e della fisiopatologia di questi animali, si può immaginare un’alimentazione “estrema”, ossia priva di alimenti che l’uomo potrebbe consumare ma che al contempo permetta ai ruminanti di produrre, riprodursi e mantenersi in buona salute.

Gli unici alimenti da eliminare o da ridurre al minimo nella “dieta estrema” sono la soia integrale, presente in realtà solo in alcune razioni, ed il mais. Togliere o ridurre la quota di mais dalle razioni delle bovine da latte di alto potenziale genetico o da quelle dei tori all’ingrasso desta qualche preoccupazione perché ritenuto impossibile, e a ragione, da molti nutrizionisti. Questa difficoltà potrebbe essere superata se si razionalizzasse la coltivazione e l’uso della pianta del mais almeno nelle zone dove la gestione delle risorse idriche non rappresenta un problema. Una gestione non razionale della coltivazione di questa pianta è accusata dall’opinione pubblica di consumare ingenti quantità di risorse idriche, di agro-farmaci e concimi, e quindi di avere un elevatissimo impatto ambientale.

La realtà è che il mais ha un’altissima resa per ettaro, produce il foraggio, la cui fibra ha una delle migliori digeribilità, e grandi volumi di amido. Inoltre, le sue ampie superfici fogliari sono in grado di consumare grandi quantità di CO2. La “dieta estrema” per ruminanti potrebbe pertanto utilizzare come concentrati solo sottoprodotti, ossia scarti dell’industria agro-alimentare, e come cereale l’orzo, che entra in modo molto marginale nell’alimentazione umana. Se l’allevamento è ubicato nelle pianure irrigue, la coltivazione del mais a scopo foraggero è ammissibile a patto che si utilizzi sensatamente l’acqua, come avviene con l’irrigazione a goccia, che si utilizzino razionalmente gli agro-farmaci e le concimazioni, e che si coltivino varietà più naturalmente resistenti alle malattie. Nelle aree non irrigue i fieni e gli insilati di cerali autunno vernini, differenti dal grano o di erbai, offrono una base di foraggio di sicuro interesse.

L’adozione della “dieta estrema” prevede un profondo cambiamento di punto di vista da parte dei nutrizionisti perché, senza l’ombrello protettivo delle grandi quantità di farina di mais nelle diete, ci vuole una profonda conoscenza della nutrizione per rispettare tutte le classi di fabbisogni degli animali. Certo è che, anche in questo caso, la comunicazione deve fare la sua parte per spiegare la profonda differenza che c’è tra formulare un mangime ad elevatissima concentrazione di sottoprodotti in onore dell’economia circolare e della sostenibilità ambientale e farlo per “l’avidità“ di guadagno dei mangimisti. Ad oggi, i consumatori ancora non stanno facendo pressione su questo argomento ma, per non farsi trovare impreparati come sta avvenendo per il benessere animale, sarebbe bene cominciare a discuterne ed a fare qualche test, e magari chissà, almeno per una volta, anticipare un’inevitabile tendenza.