Il motivo principale per cui i nutrizionisti che si occupano di ruminanti da latte aggiungono grassi alle diete è per aumentarne la concentrazione energetica. Generalmente, ma con molte eccezioni, questa aggiunta dà come effetto una minore ampiezza del bilancio energetico negativo, una maggiore produzione di latte e di grasso e una migliore fertilità. Questa affermazione è però molto semplicistica in quanto in base sia al momento del ciclo produttivo della bovina da latte che al tipo di grassi utilizzati si possono avere risultati molto contrastanti ed a volte anche negativi. Quanto sto descrivendo in questo articolo vale per tutti i ruminanti da latte e quindi anche per le bufale, le pecore e le capre, ad eccezione delle raccomandazioni indicate.

Quando si parla di grassi o lipidi della dieta s’intendono i numerosi acidi grassi che si distinguono tra loro essenzialmente, ma non esclusivamente, per il numero di atomi di carbonio, per la presenza o meno di doppi legami e per il loro numero. Al puro scopo di rendere agevole elaborare una razione, i grassi degli alimenti, e quindi di una dieta, vengono classificati in:

  • EE1, ovvero i grassi contenuti nei foraggi e nei concentrati poco oleosi.
  • EE2, che sono quelli contenuti nei semi integrali delle oleaginose e nei distillers.
  • EE 3, cioè i grassi inerti nel rumine come quelli saponificati o idrogenati.

Per ognuna di queste categorie di lipidi esistono della raccomandazioni. Una dieta che contiene solo grassi del tipo EE1 solitamente ha una concentrazione massima di queste molecole di circa il 2.5%. Se si aggiungono oleaginose integrali, come la soia, il cotone e i distillers, si può arrivare fino a quasi il 4%. Si consiglia di non aggiungere grassi del tipo EE3 in quantità superiore al 3%. Come raccomandazione generale, si consiglia di non superare una concentrazione totale di grassi nelle diete del 6%, che nelle bovine fresche di razza frisona che ingeriscono mediamente 27 kg di sostanza secca si traduce in 1620 gr al giorno. Esiste anche la raccomandazione, nella nutrizione della bovina da latte, di non superare l’apporto giornaliero di 600 gr di RUFAL, ossia una percentuale del 2.5-3% della dieta. Il RUFAL altro non è che la somma dell’acido oleico (C18:1), l’acido linoleico (C18:2 n-6 o LA) e l’acido α linolenico (C18:3 n-3 o LNA).

I RUFAL sono presenti in buona quantità negli alimenti normalmente utilizzati nell’alimentazione degli animali. Farò ora alcuni esempi esplicativi. Il cotone integrale è un alimento molto presente, dove consentito, nelle diete delle bovine da latte e delle bufale in quanto apporta un’elevata quantità di grassi (~ 20%). Il cotone integrale ha una concentrazione di RUFAL del 13.54% (s.s.), il mais integrale del 3.39% (s.s.), la soia integrale del 13.38% e i distillers di mais del 5.3%. La raccomandazione sulla quantità massima di RUFAL deriva dal fatto che i grassi insaturi vengono saturati dalla grande quantità di ioni idrogeno presenti nel rumine fino a diventare C18:0, ossia acido stearico. Durante questo processo di bioidrogenazione si sviluppano molti intermedi, ed in particolare il trans-11, cis 19 C18:2 (acido rumenico) che è il coniugato dell’acido linoleico (CLA) più rappresentativo. Questo acido grasso, una volta assorbito a livello intestinale, può arrivare alla mammella e inibire la sintesi del grasso nel latte. Inoltre, gli acidi grassi liberi nel rumine, siano essi saturi o insaturi, interferiscono negativamente sulla fermentazione degli alimenti principalmente fibrosi.

Gli alimenti apportano anche acidi grassi saturi a media e corta catena, come l’acido palmitico (C16:0) e l’acido stearico (C18:0). Il cotone integrale, ad esempio, ha il 4.5% di acido palmitico, lo 0.44% di acido stearico e il 2.86% di acido oleico. La soia integrale ha l’1.85% di C 16:0, lo 0.59% di C 18:0 e il 3.17% di C18:1. Sia i grassi saponificati che quelli idrogenati sono la fonte ideale di grassi saturi e d’energia per la bovina da latte, e più in generale per i ruminanti, in quanto, se di buona fabbricazione, non rilasciano acidi grassi del rumine ma solo nell’intestino tenue. Quelli saponificati hanno in genere il 42.93% di C16:0, il 3.46% di C18:0 e il 30.17% di C18:1. I grassi idrogenati hanno in genere il 39.2% di acido palmitico, il 40.62% di acido stearico e il 10.38% di acido oleico. Gli acidi grassi saturi e insaturi apportati dalla dieta, e quelli mobilizzati dal tessuto adiposo o sintetizzati nell’organismo, hanno specifici effetti sul metabolismo energetico, sulla produzione di latte e sulla quantità di grasso in esso contenuta, sulla produzione e l’azione dell’insulina e sulla sintesi degli ormoni steroidei. Per quest’ultima funzione è stato osservato che i grassi, in senso generale, aumentano la produzione di HDL e quindi la concentrazione di colesterolo nel sangue e nelle cellule del corpo luteo. Una maggiore disponibilità di colesterolo nelle cellule della granulosa aumenta la produzione di ormoni steroidei come gli estrogeni e il progesterone.

Sugli effetti totalmente positivi degli acidi grassi sulle cellule del follicolo ovarico esistono pareri contrastanti. Secondo alcuni autori il C16:0, il C18:1 e il C18:0 sono tossici per le cellule della granulosa del follicolo dominante. Secondo altri, questi acidi grassi influenzano negativamente la qualità dell’ovocita e la maturazione e crescita della blastociste. Al di là delle evidenze scientifiche è noto che i NEFA, ossia gli acidi grassi non esterificati, se presenti in grande quantità nel sangue, possono interferire negativamente sulla qualità dell’ovocita. La bovina non sa distinguere se NEFA come il C16:0 e il C18:0 arrivano dalla mobilizzazione del tessuto adiposo o dalla dieta, ma generalmente interpreta la loro presenza come il risultato di un dimagrimento e quindi come una condizione non funzionale all’instaurarsi di una nuova gravidanza. Come abbiamo visto, comunque questi acidi grassi saturi consentono la sintesi del colesterolo che è un precursore fondamentale degli estrogeni e del progesterone. Le bovine con migliore metabolismo energetico, dovuto anche all’utilizzo di acidi grassi saturi, perdono meno peso all’inizio della lattazione, hanno follicoli più grandi e mostrano una ripresa più precoce dell’attività ovarica dopo il parto. Thatcher e Wilcox dimostrarono già nel 1973 che un numero maggiore di cicli ovarici dopo il parto aumenta il tasso di concepimento dalla prima fecondazione effettuata al termine del periodo volontario d’attesa.

Gli acidi grassi come il C18:2 n-6 (acido linoleico o LA), il C18:3 n-3 l (acido α-linolenico o LNA), il C20:5 n-3 (acido eicosapentaenoico o EPA) e il C22:6 n-3 (acido docosaesaenoico o DHA) appartengono al gruppo delle molecole nutraceutiche utilizzabili nella nutrizione clinica perché in grado di interagire con specifiche funzioni metaboliche. LA e LNA sono classificati come acidi grassi essenziali, ossia non sintetizzabili dall’organismo ma introdotti solo dalla dieta. Questi acidi grassi polinsaturi, anche definiti come PUFA, hanno uno specifico ruolo nel metabolismo degli animali. Gli acidi grassi omega-6, come LA, sono i precursori della sintesi delle prostaglandine della serie 2 come la PGF. L’acido linoleico, attraverso l’azione di specifici enzimi, viene trasformato nelle cellule dell’endometrio uterino (BEND) dapprima in acido arachidonico (C20:4 n-6) e poi in PGF. Durante il puerperio, ossia i primi 10 giorni dopo il parto, l’endometrio uterino produce grandi quantità di PGFche hanno un effetto benefico sull’involuzione uterina e sulla sanità di questo organo. Nelle ginecologia bovina infatti si usa inoculare prostaglandine verso la fine del puerperio, al fine di aiutare l’involuzione uterina e prevenire le infezioni dell’utero. Gli acidi grassi polinsaturi omega-3 competono con gli enzimi Δ-6-6 desaturasi e ciclossigenasi, utilizzati per la sintesi dell’acido arachidonico, inibendo di fatto la sintesi della PGF2α. Dopo il puerperio, e soprattutto dopo la fine del periodo volontario d’attesa, sono gli acidi grassi polinsaturi omega-3, come l’LNA, l’EPA e i DHA, ad avere un ruolo positivo sulla fertilità, aumentando la sensibilità dei tessuti all’insulina e inibendo la sintesi delle prostaglandine. Una ridotta produzione di PGF da parte dell’utero e una buona produzione d’interferon tau (INF- τ) da parte dell’embrione migliorano la qualità del corpo luteo e la sua capacità di produrre progesterone. Questo ormone migliora il tasso di sopravvivenza dell’embrione e quindi la probabilità di gravidanza. Quando s’ineriscono acidi grassi polinsaturi nella dieta, siano essi omega-3 o omega-6, essi vengono assorbiti a livello dell’intestino tenue per poi accumularsi nei leucociti, nell’endometrio, nel fegato e nel tessuto adiposo. I CLA e i PUFA, come il DHA e l’EPA, hanno la funzione molto interessante d’influenzare la sensibilità all’insulina e al GH dei recettori PPAR, con i conseguenti benefici sulla salute e la fertilità degli animali. Nelle diete specialmente delle bovine da latte ci sono grandi quantità di mais e, conseguentemente, di acido linoleico, un omega-6 che non aiuta certo la fertilità o meglio il tasso di sopravvivenza embrionale.

Da questa breve disamina appare quindi chiaro che gli acidi grassi saturi, i PUFA omega-3 e i PUFA omega-6 sono utili ma in diversi momenti del ciclo produttivo della bovina e di tutti gli altri ruminanti da latte.

Nella fase di transizione, ed in particolare nel puerperio, sono gli omega-6 ad avere un ruolo importante sulla qualità dell’utero. Successivamente invece sono gli omega-3 a stimolare i tessuti a “sentire” meglio sia l’insulina che il GH, e a contrastare la produzione di PGF. Gli acidi grassi saturi invece mitigano il bilancio energetico negativo e contribuiscono alla sintesi del colesterolo, e quindi alla steroidogenesi e alla fertilità, ma con qualche dubbio in quanto ”letti” dalla bovina come generici NEFA e quindi espressione di dimagrimento.

I tre gruppi di acidi grassi hanno però qualcosa in comune, ossia la necessità di non liberarsi nel rumine ma solo nell’intestino tenue. Ci sono alimenti, come il cotone integrale e il seme di soia integrale fioccata o tostata, che rilasciano lentamente gli acidi grassi e maggiormente non nel rumine. Basta una macinazione anche grossolana della soia integrale a far liberare una maggiore quantità di acidi grassi nel rumine con gli effetti negativi prima descritti. Le stesse considerazioni possono essere fatte anche per il lino integrale estruso. Gli acidi grassi polinsaturi, affinché possano giungere intatti, e quindi non bioidrogenati, dal rumine all’intestino, devono essere adeguatamente rumino-protetti o utilizzati in enormi quantità nella speranza che una quota passi indenne il rumine, ma ciò comporta inevitabilmente un crollo nella concentrazione di grasso del latte. Il calo della percentuale del grasso del latte può non essere un problema se a chi ritira il latte poco interessa. Può essere anzi un vantaggio per la fertilità perché mitiga sensibilmente il bilancio energetico negativo.