Da come si sta intensificando la campagna di denigrazione dell’allevamento degli animali che producono carne e latte per l’alimentazione dell’uomo, è ormai evidente che non si tratta solo di un’azione spontanea, se volete in buona fede, di associazioni ambientaliste e animaliste, ma che dietro ci sia una raffinata regia.

Parallelamente a questa campagna di denigrazione c’è poi l’attacco ai cibi naturali, sempre più intenso e organizzato. Medici e media sembrano essere d’accordo nel ritenere che i prodotti del latte e della carne, il vino, il pane e quant’altro fanno male alla salute umana. Solo per un soffio non ci ritroviamo l’etichetta a semaforo del Nutri-Score sulle etichette del cibo confezionato.

Ruminantia ha versato fiumi d’inchiostro per sensibilizzare l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori sull’enorme rischio che stanno correndo l’agricoltura, la zootecnia e la salute umana.

C’è un silenzio assoluto invece sui cibi ultraprocessati dei giganti del cibo che vengono abilmente propagandati come la panacea, ossia la soluzione finale per evitare la sofferenza degli animali, lo sfruttamento del pianeta e il suo inquinamento, e dare all’uomo una salute eccezionale.

Dopo il reclutamento alla causa di alcuni influencer, di sedicenti giornalisti, attivisti animalisti, ambientalisti e soprattutto vegani, ora sta iniziando il reclutamento dei politici.

Le voci fuori dal coro sono pochissime, ad eccezione del certosino e rischiosissimo lavoro analitico che fa la rivista “Il Salvagente” che pubblica tutti i mesi inchieste sulle sostanze indesiderate presenti negli alimenti industriali. Mi verrebbe da dire “una voce che grida nel deserto” assediata giornalmente da denunce e querele.

Il concetto è che chi ha interessi economici nei cibi ultraprocessati deve dimostrare che il cibo artificiale è meglio di quello naturale a dispetto delle tante evidenze scientifiche che dimostrano il contrario. Solo Ruminantia nella sua rubrica Etica & Salute ne ha pubblicate centinaia.

La redazione di Ruminantia sta facendo uno sforzo inaudito per non tradire la sua linea editoriale del “libero confronto d’idee” e non cadere nella trappola del complottismo, ma il sospetto che dietro tutto questo ci sia la potente e danarosa azione delle lobby del cibo artificiale e di quello ultraprocessato è onestamente molto forte e per le ragioni esposte di seguito.

Il vero concorrente del cibo artificiale è quello naturale. Le multinazionali che gestiscono il cibo artificiale sono poche e gigantesche, e sicuramente hanno preso accordi tra di loro perché il modo più rapido e intelligente di crescere non è farsi la concorrenza ma annientare la reputazione del cibo naturale.

In un’economia liberista l’industria ha il compito di presentare i suoi prodotti e il consumatore di scegliere cosa comprare. Così è avvenuto fino ad ora. Oggi questo non sta più funzionando; negli ultimi tempi il sospetto di un’abile regia sta diventando una certezza.

Per argomentare questa affermazione è utile citare alcuni esempi. Quando tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 sono scesi in piazza i trattori degli agricoltori, noi di Ruminantia e una parte cospicua dell’opinione pubblica abbiamo appoggiato la protesta perché gli agricoltori e gli allevatori stavano ricordando alla gente che avere cibo sano e disponibile per tutti passa dalla resilienza della produzione primaria strangolata dall’industria di trasformazione (non tutta) e dalla GDO.

Lo scivolone è avvenuto quando i “trattori” sono caduti nella trappola abilmente posizionata del dare contro il Green Deal Europeo, programma condiviso da buona parte dei cittadini europei, sia di destra che di sinistra.

Il secondo fatto che ha acceso la lampadina è il documentario Food for Profit, un abile prodotto di propaganda populista vegana pieno di falsità avente come unico scopo quello di infangare la reputazione degli allevamenti.

La sola associazione animalista che si batte per far fare agli animali d’allevamento una vita degna di essere vissuta è la Compassion in World Farming. Tutte le altre si battono con chiarezza non per una vita migliore degli animali ma per la loro estinzione, e quindi dell’animalismo hanno ben poco.

Comunque, a sorprendere non è tutto questo. La democrazia tollera e dà spazio alle diverse opinioni della gente, e con la cultura e le leggi ne controlla la convivenza. Quello che onestamente facciamo fatica a capire è il diffuso atteggiamento di ricorrere alla “facoltà di non rispondere” anche su questioni d’interesse collettivo.

È la paura dell’aggressività degli attivisti vegani, animalisti e ambientalisti? È il non volere sollevare un polverone che nasconde brutte verità? È il “tanto passerà” o la non percezione del rischio di questa situazione? E’ il ritenere che sia una perdita di tempo contrastare queste maldicenze? O semplicemente il non parlare di questo impedisce di prendere una posizione contro la travolgente moda di essere vegani, magari anche solo a parole?

È difficile dare una risposta a tutte queste domande, ed è altrettanto difficile decidere cosa fare in pratica perché un’adeguata azione di informazione richiede ingenti risorse economiche, che non mancano davvero alle lobby del cibo artificiale, e una raffinata regia comunicativa.

Si vedono ancora campagne pubblicitarie, finalizzate ad esempio di arginare il crollo del consumo del latte da bere, che rappresentano improbabili “contadini” sani e sorridenti con la camicia a scacchi e, sullo sfondo, frisone che beatamente pascolano.

Anche se la produzione primaria, l’industria di trasformazione e le associazioni varie hanno scelto il silenzio, la propaganda anti-allevamenti prosegue imperterrita. È nella natura umana, e per spirito di sopravvivenza, il non volere sollevare vespai e crearsi meno problemi possibili ma l’attivismo di questi detrattori supera ogni volta se stesso.

Verso fine luglio 2024 è stata ufficialmente pubblicata sul sito della Camera dei deputati la proposta di legge “Disposizioni in materia di riconversione del settore zootecnico per la progressiva transizione agroecologia degli allevamenti intensivi”.

Pensavamo che una notizia del genere avrebbe fatto indignare ma, come è successo per Food for Profit, il silenzio si è addirittura infittito.

Per approfondire: