Che sia l’agricoltura, ed in particolare l’allevamento, a perdere il treno della green economy ci sembra paradossale. I numeri sono impressionanti: secondo l’ultimo “Rapporto Greenitaly” di Symbola e Unioncamere, negli ultimi 5 anni, 432.000 imprese italiane hanno investito sulla Green Economy. Solo nel 2018, l’occupazione Green è cresciuta, rispetto all’anno precedente, di oltre 100.000 unità. Nel mondo, il Green New Deal si sta connotando come un vero e proprio movimento di cui le imprese sono protagoniste perché, attraverso i beni che producono, possono dare alla gente la possibilità di fare qualcosa di concreto per dare un futuro al nostro pianeta e ai nostri figli.

L’allevamento, e in particolare quello dei ruminanti, si trova al momento sul banco degli imputati con l’accusa di essere il principale responsabile della produzione di gas serra (e quindi del surriscaldamento del pianeta), di consumare troppa energia, di fare un uso esagerato delle sempre più scarse risorse idriche, di essere il maggiore responsabile dell’antibioticoresistenza e anche di far soffrire gli animali costringendoli ad una vita molto diversa da quella che avrebbero condotto in natura. A Maggio 2017, Ruminantia ha presentanto a Montichiari un progetto “olistico” di riqualificazione dell’allevamento della bovina da latte che potesse dare una risposta concreta e certificabile al sentire collettivo, ossia alle aspettative della gente, che abbiamo chiamato Stalla Etica. Quest’ idea, oltre ad avere una forte valenza etica, permette di contribuire ad arginare il progressivo allontanamento della gente da prodotti di origine animale come il latte e i suoi derivati.

L’allevamento della bovina da latte è necessariamente parte di un’azienda agricola dove vengono coltivati buona parte, se non tutti, gli alimenti da destinare agli animali. Questo vale anche per gli allevamenti di pecore, capre e bufale da latte. E’ inconfutabile che il fatto che i ruminanti producano metano dalle fermentazioni enteriche e dallo stoccaggio dei liquami, e che il metano contribuisca in maniera importante al pool dei gas serra. Un calcolo attento e preciso di quanta CO2 Equivalente (CO2e) viene sottratta dalle coltivazioni agricole, magari rafforzato da rimboschimenti mirati nelle zone “scomode” e non irrigue dell’azienda agricola o anche in zone lontane, potrebbe portare ad un bilancio neutro tra la CO2e prodotta dall’allevamento e quella consumata dall’azienda agricola. Ci ha molto colpito, e a breve approfondiremo l’argomento con un’intervista, la certificazione di filiera “CO2 ZERO” ottenuta dall’industria lattiero-casearia a dimensione multinazionale Brazzale S.p.A di Vicenza. Gli allevamenti cosiddetti “estensivi”, specialmente se di tipo compost barn, sono molto grandi e possono ospitare sui tetti impianti fotovoltaici e solare termici. Le vasche di stoccaggio del liquame coperte e gli impianti di biogas possono ridurre sensibilmente le emissioni di metano in atmosfera. Stalle così costruite possono arrivare ad un bilancio neutro se non positivo nel consumo di energia. Nella gestione delle risorse idriche e nel rilascio nell’ambiente di inquinanti delle acque superficiali, come azoto, fosforo e potassio, non si può puntare al bilancio neutro o positivo ma, attraverso la metodologia della precision farming, è possibile ridurrre l’impatto al minimo. Le stalle compost barn sono molto grandi e permettono alle bovine da latte di esprimere il loro naturale comportamento al netto dei rischi che la vita selvaggia comporta, oltre a creare le condizioni per una importante riduzione del consumo di farmaci.

In molti stanno notando come la Comunità Europea stia “traccheggiando” nel legiferare sul benessere animale. Le attuali valutazioni con il metodo CREnBA non hanno alcun valore legislativo. C’è in corso un braccio di ferro tra nord e sud Europa su come normare il benessere delle bovine da latte. Molti paesi del nord Europa, o meglio quelli che beneficiano dei vantaggi climatici della offerti dalla corrente del golfo, spingono perché venga reso obbligatorio il pascolo nell’allevamento della bovina da latte. Per loro è semplice e per paesi come l’Irlanda è già uno status quo, ma per gli Stati del sud Europa sarebbe impossibile anche alla luce dei cambiamenti climatici in corso e in prospettiva.

Nei palazzi di Bruxelles si gioca sull’equivoco “pascolo-paddock”, che sono due cose profondamente diverse: il primo è un metodo d’allevamento e d’alimentazione mentre il secondo è uno spazio più o meno grande che permette agli animali di uscire all’esterno. Speriamo che questa differenza sia chiara ai politici italiani e ai loro consulenti perché, se passasse l’obbligatorietà del pascolo anche per un minimo di 100 giorni l’anno, per la nostra zootecnia sarebbe una catastrofe. Questa “spinta” deriva solo in minima parte da un visione antropomorfica degli animali, essendo dovuta prevalentemente ad una volontà di bloccare la “fastidiosa” e inarrestabile crescita nella produzione e nell’export agro-alimentare del nostro paese. Non sarebbe altro che la seconda puntata della saga iniziata con l’averci voluto imporre un regime di quote latte così sfavorevole. I prodotti del latte e della carne che garantiranno una maggiore redditività all’allevatore, all’industria di trasformazione e al retail saranno quelli etichettabili come “etici “, “eco-friendly”, “green” e quant’altro; saranno quelli che permetteranno alla gente, quando veste i panni di consumatore, di fare qualcosa di concreto per il futuro del mondo e delle prossime generazioni. Lasciamo ai negazionisti e ai vecchi movimenti verdi e animalisti le loro lotte ideologiche sterili e inconcludenti per una nuova alleanza tra agricoltura e consumatori alla quale la GDO e l’industria lattiero-casearia conservatrice si dovranno adattare per amore o per forza. Speriamo anche che gli organismi di controllo vigilino con fermezza contro il dilagante fenomeno del falso green, detto anche green washing, che altro non è che “truffa in commercio” e “pubblicità ingannevole”, due reati sui quali il nostro Codice Penale è piuttosto chiaro. Per l’agricoltura italiana perdere il treno della green economy sarebbe una follia perché forse è la naturale evoluzione dei nostri prodotti agroalimentari a denominazione d’origine, ossia DOP, IGP e STG, e dell’italian style nell’agroalimentare.