La fertilità è il primo tra i grandi problemi da risolvere per chi alleva bovine da latte.

Per affrontare l’ipofertilità, ossia la mancata nuova gravidanza il più vicino possibile al parto, è più corretto inquadrare la questione non già come una singola patologia ma come sindrome, ossia la “Sindrome della sub-fertilità bovina”.

Si stima che circa l’85% delle bovine diventi gravida dopo le fecondazioni ma che solo il 60% degli embrioni arrivi vivo al 17°-19° giorno dopo la fecondazione. In un lavoro di M.G. Diskins e Dermont Morris, pubblicato nel 2011 (Reproduction Fertility and Development 24,1, 244-251), si afferma che nel 1980 nella British Friesian il 90% delle fecondazioni generava una gravidanza, la mortalità embrionale precoce era del 28%, quella tardiva del 7% e quindi arrivavano vivi al parto il 55% dei concepiti. Nel 2006, nella Holstein Friesian il successo della fecondazione era sempre del 90%, la mortalità embrionale precoce del 43% e quella tardiva del 7%, per cui arrivavano vivi al parto il 40% dei feti. Pertanto, da questo interessante lavoro si evidenzia come, con il progredire della selezione genetica, la fertilità della frisona stia peggiorando, soprattutto a causa delle morti embrionali precoci. Pertanto, nell’ambito della “Sindrome della sub-fertilità bovina” questo è l’aspetto che prioritariamente va affrontato.

Si dice che la lattazione di una bovina adulta non inizia con il parto ma con l’asciutta. Allo stesso modo si può affermare che una gravidanza non inizia con la fecondazione ma dalla fase primordiale del follicolo.

Difetti enzimatici, carenze nutritive, stress, aspetti tossicologici e malattie metaboliche possono interferire “pesantemente” sulla fertilità della bovina da latte.

La qualità dell’ovocita

La qualità dell’ovocita viene condizionata già durante la fase primordiale del follicolo ovarico, ossia per circa 18-19 settimane prima dell’ovulazione. Nel periodo pre-antrale, che dura circa 90 giorni, la crescita del follicolo e la sua qualità sono determinate prioritariamente da alcuni fattori di crescita come l’IGF-S e anche dalle gonadotropine ipofisarie (FSH e LH), mentre dalla fase antrale all’ovulazione avviene il contrario, ossia il ruolo da protagonista nella crescita del follicolo è affidato alle gonadotropine ipofisarie. Il fluido follicolare controlla la concentrazione ematica di NEFA, BHBA, glucosio e urea, e questo condiziona la qualità del follicolo dominante, ossia quello che ovulerà a causa dell’aumento dell’attività pulsatile dell’LH. Un bilancio energetico e proteico particolarmente negativo è in grado di condizionare negativamente e irreversibilmente la qualità del follicolo e anche dell’ovocita. Nel follicolo esistono i recettori sia dell’HDL che dell’LDL, ossia delle lipoproteine che trasportano il colesterolo. L’HDL bovina è la lipoproteina che ha la maggiore quantità di colesterolo (118 mg/dl) per cui ai fini riproduttivi è la più importante. Il colesterolo consente la sintesi ovarica degli ormoni steroidei progesterone (P4) ed estrogeno. Un’alta concentrazione di P4 circolante durante la fase di crescita del follicolo è associata ad una buona qualità dell’ovocita.

Ai fini della sopravvivenza dell’embrione, almeno fino all’attecchimento in utero, è di fondamentale importanza conoscere a fondo il progesterone. Questo ormone è coinvolto in qualche modo nella qualità dell’ovocita e dopo la fecondazione è determinante per la vita dell’embrione.

Il colesterolo, trasportato nell’organismo dalle lipoproteine (VLDL, HDL e LDL), viene sintetizzato a partire dall’acetoacetil CoA e dall’acetil CoA, attraverso una reazione chimica che avviene nelle cellule epatiche in cui sono coinvolti molti enzimi. Difetti enzimatici anche congeniti posso minare alla base la fertilità della bovina. Nei ruminanti, tutto il colesterolo presente nell’organismo è di origine endogena mentre nelle specie animali non erbivore può essere di derivazione esogena e provenire quindi dall’ingestione di carne e grassi di origine animale. Questa molecola non esiste infatti nelle materie prime vegetali. La concentrazione di colesterolo nelle lipoproteine è molto diversa e ci sono differenze elevate tra le varie specie. Nei bovini l’HDL ha 118 mg/dl di colesterolo mentre nelle LDL se ne trova solo l’8%. Nell’uomo la concentrazione di colesterolo nelle LDL è invece di 136 mg/dl. Il colesterolo viene trasportato dalle lipoproteine ai tessuti dell’organismo. Nelle ovaie esistono specifici recettori per le LDL e le HDL. Nelle cellule follicolari, e poi in quelle luteiniche, dal colesterolo vengono sintetizzati progesterone ed estrogeni. Anche in questo caso una ridotta sintesi epatica di colesterolo, un’insufficiente sintesi di lipoproteine e difetti enzimatici nella sintesi degli ormoni steroidei possono compromettere la sintesi ovarica di questi ormoni. Le bovine da latte ad alta produzione ingeriscono molta sostanza secca e questo comporta un alto flusso di sangue nell’apparato digerente, compreso il fegato. In questo organo avviene il catabolismo degli ormoni steroidei per cui le bovine altamente produttive tendono ad avere una concentrazione ematica di estrogeni e progesterone più bassa.

Schema della potenziale sequenza metabolica che può produrre il cambiamento nella fisiologia riproduttiva della vacca d’alta produzione. Tratto da: S. Sangsritavong es altri. JDS (2002) 85:2831-2842.

Dall’ovocita fecondato all’attecchimento dell’embrione

Come abbiamo visto, se l’ovulazione avviene e la fecondazione è praticata correttamente, nei modi e nei tempi, circa l’85% delle bovine rimane gravida. Dalla fimbria, l’ovocita fecondato giunto allo stadio di 16 cellule arriva nell’ovidutto al 4° giorno d’età. Durante la fase di morula avviene l’ingresso nelle corna uterine, dove l’embrione si svilupperà per tutta la gravidanza. Pertanto, l’arrivo in utero avverrà al 4°-5° giorno e al 7°-8° giorno la morula si trasformerà in blastociste. Nel frattempo il follicolo ovarico è evoluto in corpo luteo, per cui inizia la produzione di progesterone. Sembrerebbe che già dal giorno 6 esista una differenza significativa nella concentrazione di progesterone ematica tra bovine che porteranno avanti o meno la gravidanza. Se così fosse, ciò significherebbe che la blastociste è già in grado di stimolare attraverso la sua produzione d’interferon tau (INF-Ƭ) la produzione di progesterone. Questa considerazione è però allo stato attuale delle conoscenze piuttosto controversa. Tra il 9° e il 10° giorno la zona pellucida si schiude e la blastociste continua a crescere cambiando morfologia. Tra il 12° e il 14° giorno le cellule del trofectoderma iniziano a produrre significative quantità di INF-Ƭ, in grado di “informare” la madre della presenza dell’embrione, e il 16° giorno avviene il riconoscimento materno della gravidanza. L’INF-Ƭ è un interferone di tipo 1 costituito da una singola catena di aminoacidi: ha effetti antivirali, anti-proliferativi, immunomodulatori e anti-luteolitici, e silenzia i recettori alfa degli estrogeni e i recettori ossitocinici dell’epitelio uterino. Quest’ultima funzione riduce la secrezione pulsatile di PGF che indurrebbe la regressione del corpo luteo e quindi una non secrezione di progesterone e un ripristino dei cicli estrali. Il P4 e l’INF-Ƭ agiscono in modo cooperativo per mettere a tacere l’espressione dei geni stimolati dall’interferone classico e, contemporaneamente, stimolano i geni coinvolti nella crescita e nello sviluppo del concepito. Lo sviluppo, o meglio la crescita, della blastociste dipende molto dall’istotrofo o fluido luminale uterino (ULF), almeno fintanto che il trofectoderma non aderisce alle cellule dell’epitelio uterino e dell’epitelio ghiandolare superficiale. La qualità e quantità di ULF è determinate per garantire una buona crescita dell’embrione, la quale è altamente correlata con la quantità di INF-Ƭ da esso prodotto. Pertanto, la via maestra per aumentare il tasso di sopravvivenza degli embrioni consiste nell’aiutare l’organismo nella produzione dell’ULF. L’istotrofo contiene glucosio, fruttosio e aminoacidi come l’arginina, la leucina, la glutammina, la glicina e la serina. Particolarmente importante è l’arginina: dal suo catabolismo infatti vengono prodotte poliammine come la putresceina, la spermidina, etc., e stimola la produzione placentare di ossido nitrico (NO). Il glutatione sintetizzato dal glutammato, la glicina e la cistina sono i principali antiossidanti dell’embrione. Una restrizione della crescita embrionale e fetale è associata al trasporto alterato di aminoacidi basici, neutri e acidi da parte della placenta. Una ridotta sintesi placentare di NO e poliamine compromette la crescita della stessa placenta mentre l’NO derivante dall’arginina induce vasodilatazione dei vasi sanguigni. Un’abbondante disponibilità di arginina comporta un suo aumento di circa 8 volte nel lume uterino già a 10-15 giorni di gravidanza. Altro aminoacido importante è la glutammina. Classificato tra i non essenziali, questo amminoacido aumenta di concentrazione nel lume uterino durante il periodo “peri-impianto”, è coinvolto nella biosintesi dei nucleotidi e può limitare la velocità per la progressione del ciclo cellulare. Molte cellule tumorali subiscono una riprogrammazione metabolica che le rende altamente dipendenti dalla glutammina per la sopravvivenza e la proliferazione. La glutammina viene convertita dapprima in glutammato e poi in α-chetoglutarico per il ciclo di Krebs. Tra gli zuccheri presenti nell’ULF importanti sono il glucosio e il fruttosio. Il glucosio totale nell’istotrofo aumenta di sei volte nei giorni 10-15 di gravidanza e viene convertito nel trofectoderma in fruttosio che è abbondante nel sangue fetale e nel liquido amniotico. Comunque, le cellule trofoectodermiche hanno le stesse caratteristiche delle cellule tumorali e dei linfociti attivati, utilizzando anche in presenza d’ossigeno la glicolisi anaerobia. L’ambiente uterino durante il periodo pre-impianto ha pochissimo ossigeno e questo influenza i percorsi metabolici. L’INF-Ƭ e il P4, oltre ad avere un ruolo nel riconoscimento di una gravidanza, inducono l’espressione dei geni LE dell’epitelio uterino luminale e GE delle ghiandole superficiali dell’epitelio uterino.

Le carenze secondarie

Nell’allevamento moderno delle bovine da latte non è più opportuno parlare di carenze primarie di qualche nutriente ma solo di quelle secondarie, ossia dovute ad un bilancio negativo tra nutrienti ingeriti o elaborati dal microbioma del tratto gastro intestinale e i fabbisogni. E’ noto che nelle prime settimane di lattazione buona parte delle bovine, se non tutte, vivono in una condizione di bilancio energetico e proteico negativo (NEPB), e di bilancio negativo dei donatori di gruppi metilici (NMDB) e di altri nutrienti. Carenze di cui supponiamo solo l’esistenza. La scienza della nutrizione animale non è in grado di prevedere, oggi, se una determinata dieta faccia sì che nell’istotrofo delle bovine ci sia la giusta quantità di nutrienti necessaria allo sviluppo dell’embrione, soprattutto nella fase di preimpianto. Gli amminoacidi si sà sono 20 e sono suddivisibili tra essenziali e non essenziali, anche se questa suddivisione è più didattica che pratica in quanto esiste un profondo e complesso meccanismo di concatenazione della loro sintesi. E’ bene sempre anche ricordare che nella bovina fresca e non gravida la sintesi della proteina del latte è una funzione metabolica prioritaria, per cui l’uptake degli aminoacidi è elevatissimo e le loro carenze sono pertanto alquanto probabili. I meccanismi che condizionano la produzione di progesterone da parte del corpo luteo e dell’INF-Ƭ da parte dell’embrione e dell’istotrofo sono moltissimi per cui è necessario provare ad individuare dei biomarker che posso aiutare a diagnosticare queste carenze secondarie. Abbiamo visto che un’adeguata presenza di glucosio è di fondamentale importanza per la blastociste e l’embrione. Sappiamo anche che, analogamente a quanto avviene per gli aminoacidi, l’uptake di glucosio della mammella ha l’assoluta priorità metabolica in considerazione del fatto che non ci sono recettori per l’insulina nell’epitelio alveolare mammario. Una bassa concentrazione di glucosio nell’istotrofo è alquanto probabile ma impossibile da misurare. La situazione degli amminoacidi è piuttosto complessa e le carenze nell’istotrofo molto probabili e più facilmente diagnosticabili. Negli articoli di Ruminantia abbiamo più volte parlato di come si possono sospettare le carenze amminoacidiche nella singola bovina. Ad oggi il biomarker “proteina del latte < 2.90 %” nella frisona nei primi 60 giorni di lattazione ha una discreta sensibilità e specificità (per approfondire leggi anche “L’importanza del biomarker “proteina nel latte < 2.90 %” nella Frisona).

Le carenze amminoacidiche più probabili e verificabili sono quelle di lisina e metionina, per le quali si può fare una stima utilizzando il CNCPS. Sono oggi disponibili biosensori in-line e real-time in grado di quantificare nel latte di ogni mungitura la concentrazione di proteine e di individuare quindi prontamente le bovine con probabili carenze amminoacidiche. Relativamente alle carenze amminoacidiche nell’istotrofo, importanti sono soprattutto quelle di arginina e glutammina che sono però difficili da stimare. L’unico modo oggi conosciuto è quello di valutare ecograficamente la riduzione dello spessore del muscolo longissimus dorsii. Si ritiene che nella bovina da latte ad inizio lattazione sia frequente il ricorso alle riserve amminoacidiche muscolari (proteine labili) per recuperare amminoacidi da dirottare nel ciclo di Krebs o per sintetizzare glucosio o produrre direttamente energia. Si pensa infatti che ad essere molto probabili siano le carenze di lisina e metionina ma anche quelle di glutammina.

Biomarker

Ideale sarebbe quindi individuare dei biomarker di facile ed economico impiego da utilizzare nelle singole bovine per verificare se l’andamento della concentrazione del progesterone ematico sia regolare. Allo stato attuale delle conoscenze, nulla si può fare, se non per attività sperimentali, per valutare se la produzione di INF-Ƭ sia sufficiente. Pur tuttavia, esiste un’associazione tra INF-Ƭ e P4 che renderebbe lo studio dell’andamento del progesterone già sufficientemente predittivo. Nell’ambito dell’IMAS (In Line Milk Analysis System) esiste la possibilità di misurare in-line e real- time la concentrazione del progesterone del latte della singola bovina. L’impianto oggi disponibile è l’Herd Navigator della DeLaval che campiona automaticamente il latte delle singole bovine e lo analizza. Le bovine vengono reclutate da un algoritmo e il loro latte analizzato ogni due giorni da 3 settimane dopo il parto fino a 50 giorni dall’ultima inseminazione.

Attraverso questo biosensore si può pertanto seguire l’andamento del progesterone delle singole vacche sia prima che dopo la gravidanza e verificare se le soluzioni nutrizionali e gestionali adottate siano efficaci. In particolare, il monitoraggio costante del progesterone nel latte (P4c) permette di individuare la ripresa dell’attività ovarica dopo il parto, le degenerazioni cistiche del follicolo, l’esatto momento in cui praticare la fecondazione artificiale indipendentemente dal comportamento estrale e la diagnosi molto precoce di non gravidanza. Da uno studio di T.C. Bruinjé ed altri, pubblicato nel 2018 sul Journal of Dairy Science (102:780-798), gli autori hanno riportato una tabella (1) dove viene riportata la curva ideale dell’andamento del progesterone di una bovina.

Tabella 1 – Curva ideale dell’andamento del progesterone di una bovina. Fonte: T.C. Bruinjé ed altri, Journal of Dairy Science (102:780-798).

Come si può notare, il cut-off di P4 ≥ 5 ng/ml indica un’attività luteinica che nella tabella inizia 55 giorni dopo il parto. Il declino si osserva a 68 giorni di lattazione e al 70° giorno la bovina viene fecondata, ossia 2 giorni dopo il nadir del P4c. L’80°giorno dopo il parto si osserva una significativa attività luteinica.

Il dosaggio in-line e real-time del progesterone nel latte può aiutare a stabile il giusto momento in cui fecondare le bovine e, almeno in teoria, a prescindere dalla rilevazione del comportamento estrale. Interessante su questo argomento la ricerca di J.B. Roelofs ed altri, pubblicata nel 2006 sulla rivista peer reviewed Animal Reproduction Science (91:337-343), dal titolo “Relationship between progesterone concentration in milk and blood and time of ovulation in dairy cattle”.

  • La concentrazione di P4 nel latte scende sotto i 15 ng/ml a 97.7 ± 17.8 ore (range 54-126 ore) prima dell’ovulazione.
  • La concentrazione di P4 nel scende sotto ai 5 ng/ml a 79.7 ± 11.2 ore (range 54-98 ore) prima dell’ovulazione.
  • La concentrazione di progesterone scende sotto ai 2 ng/ml a 70.7 ±16.8 ore (range 38-90 ore) prima dell’ovulazione.

Nella tabella (2) di Mann (1998) si evidenzia la significativa differenza del P4c al 6° e al 15° giorno dopo l’inseminazione in bovine con diverse probabilità di gravidanza.

Tabella 2 – Differenza del P4c al 6° e al 15° giorno dopo l’inseminazione. Fonte: Mann (1998)

Nella tabella (3), ricavata dalla pubblicazione di T.C. Bruinjé ed altri (Journal of Dairy Science 2018, 102:780-798), gli autori riportano la percentuale di riduzione delle probabilità di gravidanza in alcuni punti dell’andamento della curva del progesterone.

Tabella 3 –  Parametri associati con la riduzione della probabilità di gravidanza. Fonte: T.C. Bruinjé ed altri (Journal of Dairy Science 2018, 102:780-798).

Conclusioni

Da questa sintetica revisione narrativa si evince che l’approccio al miglioramento della fertilità negli allevamenti delle bovine da latte deve essere necessariamente plurifattoriale e non può essere esclusivamente di massa. La gestione della fertilità delle singole bovine con diagnosi e terapie mirate può modificare le performance medie dell’allevamento. L’approfondita conoscenza della fisiologia riproduttiva, della nutrizione e l’uso dei biosensori può aiutare sia nella diagnostica che negli interventi.