Il latte è un insieme molto complesso di componenti. Alcuni di questi, come il grasso, la proteina, la caseina, le cellule somatiche, la carica batterica, l’acidità titolabile e l’attitudine casearia, vengono costantemente quantificati nel latte di massa per verificare il rispetto delle leggi, per il pagamento del latte a qualità e per verificarne l’attitudine casearia. Nelle stalle di bovine da latte che partecipano alla selezione genetica in Italia con frequenza periodica viene anche analizzato il latte delle singole bovine per grasso, proteine e cellule somatiche per la selezione genetica e come supporto importante all’assistenza tecnica. Tuttora alcuni laboratori utilizzano metodiche tradizionali, in genere lente e costose, per analizzare questi parametri ma l’evoluzione della citofluorimetria di flusso e dell’infrarosso medio (MIR) sta aprendo impressionanti opportunità analitiche, veloci e a basso costo. Ovviamente queste tecnologie hanno bisogno di continue tarature e dell’ingresso dei laboratori nei circuiti internazionali di ring test.

La spettroscopia è un procedimento attraverso il quale vengono misurate le frequenze delle radiazioni assorbite o emesse da specifiche sostanze. A seconda delle frequenze e della lunghezza d’onda della reazione elettromagnetica emessa dopo il contatto con il fotone infrarosso, si generano degli spettri elaborati con la trasformata di Fourier (FT). Questi spettri quindi non quantificano cosa c’è effettivamente nel substrato analizzato ma ogni loro punto viene messo in relazione con un parametro che si vuole analizzare, anche un fenotipo. Grosso modo, per gli alimenti solidi si utilizza il vicino infrarosso (NIR) e per le matrici liquide, come il latte, il medio infrarosso (MIR). Le possibilità analitiche del latte di massa e di quello individuale stanno facendo percorsi paralleli, ma alcuni parametri sono comuni.

Obiettivo di questa revisione narrativa è quello di illustrare con esempi pratici le grandi opportunità offerte dalla quantificazione di alcuni parametri del latte delle singole bovine sia in laboratorio che in allevamento durante la mungitura. Il latte, in generale o dei singoli animali, è una miniera d’informazioni per valutare la salute di ogni bovina e il suo stato nutrizionale. Queste innovative tecnologie analitiche stanno aprendo nuove frontiere nella gestione degli allevamenti e nuove opportunità nell’esercizio della professione veterinaria e zootecnica e per la selezione genetica. Alcuni biomarker hanno un valore di per sè, altri vanno invece interpretati in relazione ad altri biomarker ed alcuni hanno un senso se contestualizzati nella fase del ciclo produttivo in cui si trova la bovina. Può essere utile il paragone con quelle che comunemente vengono chiamate le “analisi del sangue”. Alcuni parametri li può leggere direttamente il paziente confrontandoli con i valori normali in genere posti al lato del referto. Altri devono essere interpretati dal medico dopo un’accurata anamnesi e devono poi essere messi in relazione con gli altri parametri.

I biomarker del latte permettono di individuare le bovine che hanno problemi metabolici. Un principio “empirico” che viene utilizzato in allevamento sostiene che se oltre il 15% delle bovine presenta la stessa problematica analitica su uno o più parametri, sia nel sangue che nel latte, esistono fattori di rischio collettivi. Facciamo a questo punto degli esempi pratici. La concentrazione del grasso e della proteina nel latte delle bovine nelle primissime settimane di lattazione fornisce importanti indicazioni sul loro metabolismo e sul loro rischio di ammalarsi o di essere poco fertili. Molte evidenze scientifiche hanno dimostrato l’esistenza di una correlazione di Pearson piuttosto significativa tra concentrazione di grasso e proteine e il loro rapporto con il bilancio energetico tra la prima e la decima settimana di lattazione. Questa correlazione è per il grasso – 0.565, per la proteina – 0.185, per il rapporto grasso/lattosio -0.589 e per il rapporto grasso/proteina – 0.496. Le singole bovine che nelle primissime settimane di lattazione hanno un rapporto tra il grasso e le proteine > 1.4 presentano un maggiore rischio di chetosi. Questo rapporto ha una correlazione con il bilancio energetico negativo che va dallo 0.36 allo 0.74. Il biomarker “percentuale di grasso nel latte > 4.80%” tra la seconda e la dodicesima settimana di lattazione è correlato invece positivamente con il bilancio energetico negativo (NEBAL) con una sensibilità del 39% ed una specificità dell’87%. Nell’analogo periodo la “proteina percentuale inferiore a 2.90 %” ha una sensibilità del 17% e una specificità dell’85%. Un rapporto grasso/proteine > 1.4 ha invece una sensibilità del 66% e una specificità dell’68%, sempre per il NEBAL. Il rapporto grasso/proteine ha inoltre un’ereditabilità dello 0.17 o dello 0.19.

La spiegazione metabolica di queste correlazioni tra grasso, proteina del latte e NEBAL è piuttosto semplice e intuitiva. Una bovina con una grave carenza energetica avrà, per ragioni ormonali legate all’insulina, un’importante mobilizzazione di acidi grassi dal tessuto adiposo. La mammella ha una “prepotenza” metabolica superiore ad ogni altro tessuto per cui utilizzerà prioritariamente una maggiore disponibilità di acidi grassi dal sangue, con un conseguente aumento della percentuale di grasso nel latte. Sappiamo che la bovina in NEBAL fa anche ampio ricorso ad alcuni amminoacidi per produrre energia, per cui una bassa concentrazione di proteina del latte sottintende una scarsa disponibilità di amminoacidi per gli altri tessuti. Un carenza di amminoacidi in questa fase ha poi un impatto negativo sulla fertilità, in quanto porterà ad una diminuzione della produzione dell’ormone IGF-1, ben conosciuto come potente fattore di crescita follicolare, che dipende sia dall’insulina che dalla concentrazione di alcuni amminoacidi nel sangue. Sappiamo anche che una bovina con un NEBAL grave ha un rischio piuttosto elevato di sviluppare una chetosi sia clinica che sub-clinica.

Oltre alle metodiche specifiche di misurazione dei corpi chetonici nel sangue, nel latte e nelle urine è possibile utilizzare anche il dosaggio MIR nel latte del BHBA. Anche in questo caso la scelta degli animali da campionare è molto importante. La prevalenza della chetosi sub-clinica, o meglio delle bovine che hanno una concentrazione di BHBA nel sangue tra i 10 ed i 14 mg/dl o 1000-1400 µmol/L, diminuisce con l’aumentare dei giorni di lattazione. Il picco di massima prevalenza si ha durante la fase di puerperio (0-15 giorni di lattazione). Si stima che la chetosi sub-clinica colpisca più del 30% delle bovine. Una misurazione del BHBA su tutte le bovine in lattazione permette di individuare quelle con chetosi e riduce quasi a 0 la prevalenza della malattia in un allevamento ed è quindi fuorviante. E’ sempre bene ricordare che tra la concentrazione di BHBA del sangue e quella del latte c’è un rapporto di 1:10.

Da ricerche fatte in Israele da vari autori e in Italia dall’Ufficio Studi di AIA, si è evidenziata una robusta correlazione tra un rapporto grasso/proteine > 1.4 e la chetosi sub-clinica. Alcuni costruttori di analizzatori del latte che utilizzano il MIR hanno anche dato la possibilità di quantificare i singoli acidi grassi del latte. Il grasso del latte delle bovine è composto solitamente da una quantità compresa tra il 18 e il 30% di acidi grassi corti (da C:4 a C:14), classificati come “de novo” ossia sintetizzati ex novo dalla mammella a partire dall’acido acetico e l’acido butirrico che si producono dalle fermentazioni ruminali delle cellulose e degli zuccheri, e dal BHBA ematico. Un gruppo di acidi grassi invece denominato “mixed” (da C:15 a C:17), che solitamente rappresentano dal 35 al 40% del grasso del latte, proviene dall’acido propionico ruminale (C:15 e C:17) che deriva dalla fermentazione degli amidi o che è stato somministrato come additivo aggiunto nella dieta. Il C:16 deriva essenzialmente dalla dieta. Una parte dei mixed può derivare anche dall’acido acetico che arriva alla mammella. Il 35-45% degli acidi grassi lunghi (C 18:0, C 18:1 e C18:2) sono classificati come preformati e derivano dalla dieta e dal tessuto adiposo. Un latte di massa ideale, con oltre il 3.75% di grasso, dovrebbe avere più dello 0.85% di acidi grassi di de-novo sintesi e più dell’1.35% di mixed.

Esiste una correlazione (R2 = 0.38) tra C 18:1 cis-9 e NEFA plasmatici nel latte di bovine che si trovano tra la seconda e la ottava settimana di lattazione. Nel medesimo periodo esiste una correlazione (R2 = 0.47) tra BHBA e rapporto C 18:1 cis-9/C 15:0. La possibilità di quantificare o i singoli acidi grassi o i tre raggruppamenti prima descritti consente di avere importanti informazioni sui singoli animali. Un latte che contiene una quantità elevata di C 16:0 e C: 18:0, e una riduzione degli acidi grassi corti da C 5:0 a C 15:0, potrebbe far presupporre che la bovina presenti un forte dimagrimento in atto, a meno che nella dieta non siano stati inclusi grandi quantità di miscele di acidi grassi saturi rumino-protetti. Di converso, una percentuale elevata di acidi grassi sintetizzati ex-novo dimostra una buona attività ruminale di fermentazione delle fibre. La difficoltà di queste valutazione è nei valori normali. Ogni stalla ha diete dedicate e diverso potenziale genetico anche in presenza della stessa razza. Il controllo routinario del latte individuale, soprattutto delle bovine all’inizio della lattazione, può dare però un’idea di come sono normalmente distribuiti i tre raggruppamenti di acidi grassi o i singoli permettendo una più rapida e precisa individuazione delle anomalie. Non è l’obiettivo di questa revisione narrativa, ma è interessante conoscere anche la possibilità offerta dal MIR di quantificare, anche ai fini certificativi, la presenza nel latte di acidi grassi polinsaturi omega 3 e di CLA che hanno un sicuro e dimostrato effetto positivo sulla salute umana.

La citofluorimetria a flusso consente anch’essa di avere importanti informazioni sulle mastiti sub-cliniche, problema tutt’altro che risolto in Italia soprattutto nell’ambito della prospettiva della riduzione dell’uso sistematico di antibiotici alla messa in asciutta. E’ infatti in questa fase che vengono utilizzati circa il 60% degli antibiotici destinati a questi animali. Da un’elaborazione dell’ufficio studi di AIA dei dati delle cellule somatiche delle singole vacche emerge un quadro piuttosto inquietante. In Italia, nel 2016, hanno partecipato alla selezione genetica per la sola razza frisona 11.123 allevamenti, per un totale di 1.106.461 vacche. Negli anni 2012, 2013, 2014 e 2015 oltre il 30% di queste bovine ha avuto una concentrazione di cellule somatiche nel latte > 300.000 /ml, e per cinque mesi l’anno (da Giugno a Ottobre) superiore alle 400.000/ml. La percentuale di bovine che in questo lungo arco temporale ha avuto più di 200.000 cellule somatiche/ml è stata superiore al 30%. Ad ognuna di queste bovine nel corso dei controlli funzionali, mediamente di frequenza mensile, viene quantificata la presenza di cellule somatiche. Questa informazione è importante per la gestione dell’allevamento, in quanto consente di individuare le bovine con mastite sub-clinica (> 200.000/ml) e quelle nelle quali la mastite ha ormai cronicizzato. Nella prospettiva della terapia selettiva in asciutta queste informazioni di base sono fondamentali per decidere quali animali trattare con gli antibiotici alla messa in asciutta.

La citofluorimetria di flusso sta offrendo una nuova ed importante opportunità che è quella della conta differenziale delle cellule somatiche (DSCC), che si basa su un concetto elementare ma di fondamentale importanza. Le cellule somatiche presenti nel latte altro non sono che leucociti classificabili come macrofagi, linfociti e neutrofili, anche detti polimorfonucleati (PMN). I macrofagi presenti nel latte sono la linea difensiva di base del sistema immunitario cellulo-mediato o innato. In presenza di un’infezione mammaria essi cercano attraverso la fagocitosi di distruggere i patogeni entrati nella mammella e nel contempo richiamano dal sangue i PMN. Pertanto, una bovina ideale con una mammella non infetta dovrebbe avere un livello basale di macrofagi significativamente elevato e una bassa presenza di PMN e linfociti. Non è detto che sia ideale avere un livello più basso possibile di cellule somatiche, l’importante è che ci siano pochi neutrofili e linfociti. Questo “assetto” immunitario della mammella sarebbe da premiare con la selezione genetica, cosa potenzialmente possibile con la DSCC in bovine con un esame batteriologico negativo. Avere a disposizione quindi informazioni sull’andamento delle cellule somatiche della singola bovina e di quelle in prossimità della messa in asciutta, fornisce dati sufficienti per decidere se trattare o non trattare con gli antibiotici. Se poi si ricorre alla DSCC e all’esame batteriologico, il livello di precisione aumenta. Per eseguire l’esame batteriologico delle bovine vicine alla messa in asciutta ci sono due possibilità. La prima è quella di portare il latte in laboratorio, la seconda è considerare i metodi on-farm per eseguire l’esame batteriologico che sono stati recentemente sviluppati. Possiamo citare in questo senso il “Minnesota Easy Culture System”, messo a punto dall’Università del Minnesota, ed il sistema sviluppato dalla Sezione di Piacenza dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna.

Conclusioni

La citofluorimetria di flusso e la spettroscopia MIR si stanno evolvendo molto rapidamente, fornendo agli operatori della filiera del latte importanti informazioni sia sul latte di massa che su quello individuale. Di particolare interesse sono i biomarker del latte ricavabili con la tecnologia MIR. Sarebbe di fondamentale importanza fondare una “Banca degli spettri” dove conservarli per usi futuri. Ci sono grandi opportunità all’orizzonte date dalle possibili correlazioni tra alcuni punti degli spettri e altri parametri o fenotipi, anche i più impensabili allo stato attuale delle conoscenze.