La veterinaria è una branca della medicina che si occupa della salute e dell’allevamento degli animali principalmente domestici e dei prodotti che ne derivano. Le specie addomesticate e domesticate dall’uomo sono ormai moltissime, come quelle selvatiche a lui attigue. Tra quelle allevate, e quindi non selvatiche, abbiamo le specie da cibo o food animals e quelle che l’uomo utilizza per lo sport, la guardia e la compagnia. In questo grande raggruppamento di animali ci sono prede e predatori, erbivori, onnivori e carnivori. Con il passare dei secoli all’interno di queste specie sono state create dall’uomo razze sempre più distanti tra di loro e anche dal loro progenitore. Alcune di queste razze domestiche sono diventate talmente dipendenti dall’uomo che in natura, o meglio allo stato selvaggio, vivrebbero molto poco, come l’uomo stesso del resto. Ci sono addirittura razze canine e feline in cui, per renderle sempre più somiglianti agli umani come aspetto e comportamento, sono stati resi dominanti e omozigoti geni di deformità, come le minute dimensioni, il naso schiacciato (brachimorfi), magari l’assenza del pelo e un comportamento simil umano.
È vero che la medicina è una e le principali malattie sono simili per eziologia e sintomatologia, ma la medicina veterinaria si viene a trovare e a gestire patologie complesse e plurifattoriali, tante quante sono le specie e le razze di cui si deve occupare. Per la veterinaria esiste poi un’ulteriore difficoltà, che è quella della continua e incessante selezione genetica a cui sono sottoposti gli animali domestici che modifica le razze di anno in anno molto profondamente e che è connessa anche ai problemi sanitari che possono avere. Inoltre, la medicina veterinaria si deve occupare delle zoonosi, ossia di quelle malattie che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo, e della salubrità dei prodotti di origine animale. Non sono molti anni che si è consolidata nell’opinione pubblica la sensibilità ai diritti degli animali e, per ragioni difficili da comprendere, questa riguarda principalmente, se non esclusivamente, quelli d’allevamento. Buona parte dei veterinari esercita la libera professione ma molti sono dipendenti di strutture private e pubbliche.
Questa lunga premessa dovrebbe suscitare un profondo ottimismo per chi decide di diventare un medico veterinario, visti i potenziali sbocchi occupazionali, se non fosse che a monte di questo infinito caleidoscopio di competenze c’è un solo tipo di percorso didattico, ossia la laurea in medicina veterinaria “generica”. In Italia si può diventare medico veterinario in 13 Atenei, tutti a numero chiuso e ai quali si può accedere se si supera l’esame d’ammissione che consta di 60 domande scritte a risposta multipla. Il percorso didattico nei vari dipartimenti italiani è simile e indifferenziato, anche se una percentuale probabilmente non trascurabile di studenti sa bene quale tipo di professione esercitare una volta laureato. E’ facile trovare nella stesse aule studenti e professori che vedono con orrore l’allevare gli animali per cibarsene, e docenti e discenti che considerano inconcepibile che gli animali d’affezione e da sport siano trattati come gli uomini. A parte queste considerazioni, ci sono insegnamenti, come la riproduzione animale, la nutrizione, e la stessa clinica e chirurgia, che, grazie alle sempre troppo poche ore di didattica a disposizione, devono solo accennare ai principi di base di queste complesse discipline. Il nostro Paese ha scelto che il percorso didattico universitario debba trasferire agli studenti una solida conoscenza di base che gli permetterà di affrontare con maggiore qualità sia la specializzazione con la quale vorrà affrontare la professione veterinaria che l’aggiornamento. Quando mi laureai in medicina veterinaria nell’ormai lontano 1983 fu al termine di una maratona di 52 esami in un tempo in cui non era necessaria una super specializzazione per diventare un professionista. Già allora questa corsa contro il tempo, in cui i docenti avevano l’obiettivo d’insegnare il più possibile, ti faceva diventare un medico veterinario toti potente che poteva curare un cane, un cavallo, una vacca o controllare la carne in un macello senza apparente necessità di specializzazione. I sostenitori del corso di laura a ciclo unico, che credo siano molti vista la resilienza di questa organizzazione didattica, sono convinti che basti poi una scuola di specializzazione per diventare adatto e competente al lavoro che hai scelto di fare.
Sappiamo però bene che non è così. Un veterinario appena laureato che voglia, ad esempio, diventare un buiatra o uno specialista di cani e gatti o cavalli cercherà forse una scuola di specializzazione o un master ma affiderà il suo ingresso nel mondo del lavoro all’affiancamento più o meno casuale a colleghi già operativi. Solo chi intende entrare nella sanità pubblica dovrà obbligatoriamente iscriversi ad una scuola di specializzazione. Il giovane professionista dovrà sommare la frustrazione di vedere un mondo spesso diverso da quello che immaginava al farsi arringare dal tutor libero professionista di turno di non essere capace di fare nulla in pratica.
Tutto il mondo accademico è conscio di questo problema ma è immorale lasciare tutto com’è e sperare di risolvere la situazione con i tirocini e gli affiancamenti programmati. Inoltre, la esigua presenza nei corsi di laurea di professori a contratto reclutati tra i professionisti rende molto distante il mondo accademico da quello reale. Di questo paradosso a farne le spese sono i giovani laureati, il mondo produttivo e i cittadini. Un’altra obiezione che viene mossa al tentativo di cambiare le cose è quella che la didattica della medicina “umana” funziona grosso modo così: corso di laurea a ciclo unico e poi “potenti” e selettive scuole di specializzazione, dimenticando però la medicina umana si occupa di una sola specie. Già solo tra veterinari che si occupano di animali di affezione e quelli che hanno scelto di dedicarsi agli animali da reddito esiste una differenza culturale molto profonda, fatta di una differente sensibilità etica e di obiettivi. La soluzione è certo complessa, e non si può risolvere in maniera razionale con un semplice articolo su una rivista, ma necessita a mio avviso di attenzione per poi prendere i più giusti provvedimenti e in tempi rapidi.
Forse in Italia è relativamente più facile proprio perché abbiamo ben 13 Dipartimenti di medicina veterinaria, contro un totale di 70 delle 20 nazioni europee più importanti. Fermo restando il ruolo fondamentale che hanno sia le Scuole di Specializzazione che i Master di II livello, alcuni Atenei si potrebbero gradualmente specializzare nei due indirizzi principali dei food animals e dei pet, dando a certi insegnamenti già maggiore importanza rispetto ad altri. Importante è anche che tutti i corsi di laurea diano un maggiore spazio al confronto con il mondo produttivo, ossia con chi poi sarà il destinatario dell’offerta delle prestazioni professionali. Il criterio con cui alcuni dei 13 Dipartimenti si potrebbero specializzare può essere la vocazione zootecnica del territorio dove sono ubicati o avere una “chiara fama” in un determinato settore della veterinaria. Certo è che questa ristrutturazione della didattica potrebbe incontrare grandi resistenze da parte di un corpo docente costretto o a riconvertirsi o a trasferirsi verso l’ateneo che ha scelto un indirizzo piuttosto che un altro. Un’altra alternativa potrebbe essere quella di fare tre anni di insegnamento comune, come se fosse una magistrale, da far seguire da un biennio obbligatorio di specializzazione verso le due macroaree proposte. Personalmente, ritengo che questa riforma didattica sia urgente e necessaria, proprio per dare un futuro certo e dignitoso ai giovani veterinari e la possibilità al mondo produttivo di disporre di professionisti validi e preparati.
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