Il passato e il presente dei rapporti tra i produttori di latte bovino e gli acquirenti è da sempre caratterizzato da una grande tensione. L’allevatore pretende un prezzo del latte sempre più alto mentre l’industria lo vuole pagare sempre meno. Di questo non c’è da stupirsi, perché è semplicemente il gioco delle parti. Se avvenisse il contrario allora sì che sarebbe ragionevole sospettare che c’è qualcosa che non va.

Non è da molto tempo che in questo “rapporto di coppia”, fatto di amore e odio e di invitabile dipendenza reciproca, si è inserito un terzo incomodo con un potere contrattuale tremendo: il consumatore.

Una volta la gente era facilmente addomesticabile con la pubblicità mentre ora è addirittura difficile capire cosa vorrebbe trovare sugli scaffali dei punti vendita. I responsabili del marketing dell’agroalimentare erano in passato poco preoccupati di conoscere i desideri dei consumatori perché avevano la certezza che attraverso le campagne pubblicitarie li avrebbero potuti facilmente orientare; anzi, avrebbero addirittura potuto creare nuovi bisogni. In fondo dipendeva tutto dal budget in pubblicità che avevano a disposizione.

Ho recentemente voluto investire del tempo per andare a vedere referenze e prezzi del latte da bere sugli scaffali di qualche grande supermercato: la sensazione che ne ho tratto è di grande confusione. Prima il latte era latte. Poteva essere fresco, UHT, intero o parzialmente scremato. Ora esisitono invece tantissimi tipi di latte da bere ma quello che più mi ha confuso sono i prezzi, o meglio la loro non coerenza tra le varie tipologie di prodotto e con quanto quel tipo di latte viene realmente pagato agli allevatori. Ho visto latte biologico intero fresco o UHT con prezzi che vanno da 1.49 a 1.89 euro a confezione, latte fresco ad alta qualità da 1.49 a 1.74 euro. Mi ha sinceramente stupito vedere un latte intero microfiltrato “prodotto di montagna” costare quanto un generico latte parzialmente scremato 100% italiano.

Ho visto un latte fieno “più giorni” convenzionale intero e parzialmente scremato, di una nota latteria italiana, a 1.72 euro. Produrre questa STG è piuttosto impegnativo e costoso. Il divieto d’impiego di alimenti OGM fa alzare il costo di produzione, e il divieto degli insilati e l’obbligo di fare razioni per bovine in lattazione con un rapporto foraggi/concentrati 75:25 riducono inevitabilmente le produzioni di latte.

Questa babele di prezzi ha sicuramente una ragione tattica ma mi permetto di affermare che può confondere quei consumatori che associano ad un prezzo più alto una maggiore qualità o semplicemente maggiori claim. Trovo coerente, e credo che possa essere d’accordo con me anche il consumatore medio, che nei latti UHT interi o parzialmente scremati non necessariamente 100% italiani ci sia una corsa al prezzo più basso. Un consumatore confuso che nel cibo che acquista ricerca risposte al suo senso di colpa verso l’ambiente e per la qualità della vita degli animali, oppure che vuole un ritorno positivo per la sua salute, cerca marchi affini al suo pensiero che condividano lo stile di vita che vuole avere.

Sono assolutamente convito che come ultimo atto prima della resa incondizionata al cibo ultra-processato, e quindi alla fine non solo del latte da bere ma anche dei formaggi e degli allevamenti, debba radicalmente cambiare il rapporto tra allevatori e industria lattiero-casearia, che non dovrà più essere solo una relazione tra venditore e acquirente ma un vero rapporto di filiera dove coinvolgere anche il consumatore.

Credo anche che bisogna prendere atto che i consumatori sono principalmente classificabili in due categorie principali. Alla prima appartengono tutte quelle persone che hanno una limitata capacità di spesa e che quindi cercano un cibo tendenzialmente a basso costo che possa soddisfare il loro bisogno di nutrirsi. Questa tipologia di persone è presente in quota minoritaria in occidente e in molti paesi che stanno crescendo economicamente. La maggioranza dei consumatori, soprattutto quelli occidentali, ha però radicalmente cambiato il suo rapporto con il cibo, avendolo trasformato da semplice nutrimento ad esperienza sensoriale, e con il quale identifica il suo stile di vita. Il mantra di questa parte della popolazione è “mangiare meno ma mangiare meglio”.

Le filiere del latte e della carne non devono dimenticare le fasce più povere della popolazione, offrendo loro prodotti sani ed a basso costo, ma devono al contempo pensare che la maggior parte dei consumatori sta cambiando modo di mangiare. Pertanto, il calo dei consumi è da considerarsi fisiologico, mentre patologico è il fatto che i prodotti del latte, ma anche della carne, che i consumatori cercano non vengano fatti. Quelli particolari come i biologico, di montagna, etc., hanno dei prezzi a volte talmente bassi e poco plausibili da fare insospettire la gente circa la loro veridicità. In questa fase delicata bisogna che la comunicazione racconti solo ed esclusivamente la verità e che il commerciale abbia il coraggio di aumentare molto sensibilmente il prezzo di vendita dei prodotti più particolari. Ovviamente, una filiera sta in piedi e può sopravvivere se è in grado di premiare economicamente la produzione di latte. In una filiera sana che crea una soddisfacente catena del valore, tale da permettere investimenti sul benessere degli animali e sulla sostenibilità, le risorse economiche vanno cercate non tanto allo “spremere il limone” del reddito degli allevatori ma nel fare quei prodotti del latte e della carne che la gente chiede e che devono avere un certo prezzo.

In soldoni, credo che l’industria del latte da bere debba superare la soglia psicologica del prezzo sullo scaffale a 2 euro/litro per prodotti con potenti claim, chiari e certificabili. E’ molto elevato il rischio che prodotti del latte altamente qualificati e caratterizzati diventino commodity, rischio concreto a cui sono soggetti anche i prodotti a denominazione d’origine. Ci saranno sempre allevatori che producono per scelta o per necessità latte commodity che serve a fare latte e formaggi commodity, ma per una parte importante della filiera del latte la generazione di una virtuosa catena del valore ha regole diverse.