L’uomo ha dato e dà un nome a tutto ciò con cui ha a che fare, sia esso un qualcosa di materiale o un pensiero.

Il nome descrive un oggetto inanimato, un essere vivente o un concetto, ma anche il suo funzionamento e il suo obiettivo.

L’uomo, pur essendo parte della natura, ne ha da sempre combattuto le regole e le ha modificate per le sue necessità perché ciò gli ha permesso, mai completamente, di affrancarsi dalla lotta per la sopravvivenza e dalla regola che per cui sopravvive e si riproduce solo il più adatto.

L’uomo domestica se stesso con la cultura che si stratifica giorno dopo giorno, ormai da millenni, sulla sua natura ferina di abile predatore e tramite la tecnica, che secondo Umberto Galimberti alimenta incessantemente se stessa perché non ha uno scopo, domina e plasma il contesto (anche naturale) dove vive.

Il 22 ottobre 2024 Maurizio Balistreri dell’Università degli Studi della Tuscia e Marco Menin dell’Università degli Studi di Torino hanno organizzato a Viterbo un convegno internazionale dal titolo “Carne coltivata: etica del cibo del futuro” dove si è discusso in maniera molto approfondita della carne coltivata, un tema molto divisivo anche perché ormai è questo il metodo con cui si affrontano gli argomenti.

In questo convegno ciò non è avvenuto, perché non era tra gli obiettivi contrapporre le opposte tifoserie, e tante sono state le riflessioni fatte.

Da quando abbiamo saputo che gli scienziati e i tecnici stanno mettendo a punto la tecnica per moltiplicare cellule animali in un bioreattore e per utilizzarle, con o senza una matrice, anche per il consumo umano, si è acceso un dibattito internazionale e addirittura un divieto da parte dell’Italia di produrre e commercializzare questo potenziale novel food.

Nella necessità e urgenza di dare un nome a questo nuovo prodotto più che gli interessi tecnici hanno prevalso quelli commerciali.

In pratica si è clonato quanto fatto tempo fa quando denominazioni come latte, burro, formaggio e yogurt sono state utilizzate per gli alimenti vegetali, almeno finchè la Corte di Giustizia Europea ne ha vietato l’utilizzo in etichetta in quanto nomi che presuppongono un’origine dal latte, che inequivocabilmente è il secreto delle cellule mammarie dei mammiferi.

Lo stratagemma delle multinazionali del cibo artificiale al tempo è stato quello di dare continuità a nomi che appartengono da sempre alla memoria collettiva per accreditare nuovi cibi presso i potenziali consumatori.

Chiamare una bevanda di riso, avena o soia “latte” è rassicurante per i vegani, i vegetariani o a chi semplicemente ha a cuore un benessere, il più delle volte “antropomorfizzato”, degli animali e la salute del pianeta.

A questi “neologismi” si è ormai affiancato da anni un attacco sistematico e ben condotto contro ogni cibo naturale evocando su di esso dubbi e incertezze salutistiche ed etiche. Nel sentire collettivo sta via via maturando la convinzione che il pane e la pasta fanno male anche a chi non è intollerante al glutine, per cui gli analoghi ultraprocessati sono meglio, e poi comunque il pane fa ingrassare. La carne rossa naturale e quella lavorata derivano dalla morte degli animali, e comunque fanno male alla salute a prescindere da quanta se ne mangia. Il latte e i formaggio fanno male a chi è (o pensa) di essere intollerante al lattosio, e poi derivano da animali che soffrono e che mangiano alimenti come la soia che sono la causa prima della deforestazione dell’Amazzonia, anche se si propone come alternativa al latte di origine animale quello di soia!

Bere il vino fa male mentre le bevande artificiali no.

La lista potrebbe essere infinita ma è accumunata dal fatto che i cibi naturali fanno male alla salute dell’uomo e dell’ambiente mentre quelli artificiali non fanno del male a nessuno.

Ascoltando con attenzione questa retorica anche la dieta mediterranea, di cui uno dei pilastri è il mangiare frugale (poco di tutto), è stata di fatto declassata da panacea nutrizionale a sinonimo di mangiare male.

Questa narrazione, e la potente comunicazione che l’accompagna, minimizza, occulta e ignora le ormai numerose evidenze scientifiche che dimostrano come l’enorme quantità di additivi chimici, di sale, di zucchero e di grassi saturi che compongono i cibi ultraprocessati abbiano un impatto devastante sulla salute umana e sul pianeta.

Le cellule animali moltiplicate nei bioreattori sono un rilevante potenziale business per le applicazioni in campo biomedico, e soprattutto come alimento, anche se non risolvono i disordini alimentari tipici dell’alimentazione vegana che vieta il consumo di prodotti di origine animale mentre potrebbero trovare estimatori tra i vegetariani e gli onnivori in cerca di curiosità alimentari nell’ambito dei novel food.

Per cominciare a creare il bisogno di un’alternativa “etica e salutistica” alla carne come da millenni la conosciamo hanno pensato bene di partire dal nome, esattamente come è avvenuto per i “latti” vegetali.

Sull’idea che si possa dare un’alternativa alla carne con un prodotto derivato da tessuti muscolari di animali sacrificati, gli investitori stanno scommettendo cifre molto importanti.

Avere un hamburger o una bistecca fatta da colture cellulari e non da animali sofferenti negli allevamenti intensivi e con un grande impatto negativo sull’ambiente non è certo un business da sottovalutare, almeno fino a che la disinformazione è efficace nello screditare la zootecnia.

Come è stato fatto per i “latti vegetali”, quale migliore soluzione può esistere se non quella di semplificare la definizione “cellule animali moltiplicate in bioreattori” con la definizione “carne coltivata o sintetica o artificiale”, invece di un astruso acronimo come ACMB (Animal Cell Moltiplied in Bioreactor)?

La parola carne nell’immaginario collettivo evoca un alimento che appartiene intimamente alla natura onnivora dell’uomo e che, come altri prodotti di origine animale, gli ha permesso di diventare quello che è oggi.

Del resto gli esperti di marketing hanno suggerito di chiamare hamburger o salsicce vegetali cibi ultraprocessati di origine vegetale ricchi di additivi chimici, e di sostenere una potente azione di lobbying affinché questo equivoco lessicale non venisse vietato.

Recentemente la Corte di Giustizia Ue ha stabilito che alcuni alimenti a base vegetale possono continuare a essere venduti e promossi utilizzando termini tradizionalmente associati alla carne, purché la loro composizione sia chiaramente indicata nella confezione.

La cultura popolare dice che le bugie hanno le gambe corte e il buonsenso consiglia di non costruire business sugli equivoci se si ha come obiettivo la resilienza, ma i guru della comunicazione spesso pensano il contrario.

Anche se sono passati quasi 30 anni ci ricordiamo tutti molto bene il lancio della soia RR della Monsanto basato sull’equivoco che questa soia fosse più resistente alle malattie, e per questo più produttiva, mentre in realtà era soprattutto resistente al Roundup (Roundup Ready), il potente erbicida della stessa Monsanto.

Il lancio su vasta scala di soia OGM resistente a dosaggi elevati di glifosato innescò polemiche e scontri tra opinioni diverse e mai un dialogo. Nonostante questo, la soia RR si è diffusa in tutto il mondo soppiantando quella “naturale” per gli indubbi vantaggi economici che procura nonostante la controversa cattiva fama di molecola cancerogena che ha il glifosato.

Dopo molti anni è stata avviata una seconda fase degli OGM basata sulla possibilità di utilizzare essenze vegetali modificate geneticamente attraverso l’introduzione di geni “alieni” oppure accelerando artificialmente i meccanismi di selezione naturale.

Queste possibili nuove varietà sono state presentate in modo più corretto e chiaro rispetto a quanto Monsanto fece con la soia RR e il mais BT. Questo non sta esorcizzando il dissenso verso queste tecnologie ma sta dando la possibilità all’opinione pubblica di capire di cosa si sta parlando in attesa che queste piante siano utilizzabili.

E’ decisamente meglio un disaccordo razionale e argomentato che quello emotivo e irrazionale.

Nell’articolo “E’ il momento di ragionale con calma su OGM e NGT” Ruminantia ha voluto dare un contributo ad una conoscenza corretta di questa novità.

L’Italia però non è consapevole del fatto che è bene parlare chiaro su argomenti così delicati e ha voluto utilizzare, invece dell’acronimo NTG (Nuove tecniche genomiche), quello TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita), creando più confusione che chiarimenti.

Quest’ultimo esempio è ovviamente estremo, ma aiuta a introdurre la seconda parte di questa riflessione.

Le cellule animali “coltivate” non sono un concorrente delle carni naturali e, quando saranno disponibili, potranno soddisfare la curiosità di chi cerca novità nel cibo, aumenteranno la gamma di alimenti utilizzabili dai vegetariani e, se verranno industrializzate a prezzi più molto più bassi delle carni naturali, permetteranno agli indigenti di accedere più facilmente alle proteine di origine animale.

Allo stato attuale la macchina del fango che sta colpendo gli allevamenti architettata dalla disinformazione, dall’attivismo vegano e dalle multinazionali del cibo ultraprocessato ha come obiettivo quello di promuovere il consumo di cibo sintetico o artificiale come alternativa e non complemento di quello naturale.

Una fascia considerevole della popolazione mondiale è satolla e ha dimenticato i tempi bui della fame per cui ha un rapporto diverso con il cibo.

Mangiare è anche un’esperienza sensoriale ma dagli alimenti ci si aspetta che sopiscano la fame e che soprattutto migliorino il proprio stato di salute. Questo tipo di persone che non sono necessariamente ricche vogliono che la produzione di cibo non sia causa di sofferenza degli animali e distruzione dell’ambiente.

Accanto a questi c’è la parte meno agiata delle persone che lotta ancora contro le privazioni alimentari e che, non per scelta, trova nei cibi ultraprocessati quello di cui ha bisogno, ossia nutrienti per sopravvivere e non sentire la fame. I cibi ultraprocessati hanno in genere un costo basso, sono semplici da utilizzare e il loro essere ricchi di grassi saturi, sale, zucchero e additivi chimici li rende gradevoli e gratificanti.

Le cellule animali moltiplicate nei bioreattori potrebbero essere d’aiuto alle persone ancora malnutrite in attesa che anche queste possano permettersi una dieta diversa, anche se è bene ricordare che la dieta mediterranea è nata e si è sviluppata nelle comunità contadine povere.

Dare un nome corretto e non equivocabile alle cellule animali moltiplicate nei bioreattori dovrebbe essere considerata una scelta saggia da parte di chi si occupa di marketing e comunicazione.

Sta crescendo molto rapidamente l’attenzione degli allevatori a dare una migliore qualità di vita ai propri animali, anche perché è stato dimostrato in maniera inequivocabile che trattarli meglio li rende ancora più profittevoli.

Questo ragionamento, per essere condivisibile anche dai non addetti ai lavori, deve presupporre che il punto di vista che hanno gli animali d’allevamento di una vita degna di essere vissuta è completamente differente da quella che l’uomo considera per sè una vita felice.

Il concetto di mangiare meno e mangiare meglio, e la rivalutazione della “vera” dieta mediterranea sta rapidamente convincendo una percentuale sempre più ampia della popolazione, partendo da quella giovanile.

Le cellule moltiplicate nei bioreattori non sono un’alternativa alla carne ma un nuovo cibo che si affianca a quelli esistenti, destando la curiosità di chi non crede che mangiare i prodotti del latte e della carne sia una crudele nefandezza dannosa anche alla salute.

Prima che la discussione sulla carne artificiale diventi l’ennesimo argomento di scontro tra opposte tifoserie è bene trovare un nome a questo novel food e comunque smettere di giocare con gli equivoci.

La palla ora passa a voi lettori di Ruminantia, sempre molto attenti e curiosi verso le novità senza mai perdere la voglia di farsi idee proprie e di non acquisire passivamente le idee altrui.

Voi come chiamereste le cellule animali moltiplicate nei bioreattori?

Mandateci un mail per farci sapere la vostra opinione!