Il rumine è una struttura anatomica, a monte dello stomaco propriamente detto, che alcune specie di erbivori hanno sviluppato per trarre la maggiore quantità possibile di energia e aminoacidi dagli alimenti vegetali. Questa evoluzione estremamente vantaggiosa per i ruminanti è stata successivamente notata e “sfruttata” dall’uomo primitivo quando si stava evolvendo da raccoglitore-cacciatore ad agricoltore-allevatore. L’uomo di allora notò che questi animali non competevano con lui per il cibo perché riuscivano a trasformare in carne, latte, pelle e ossa i vegetali, e non solo i loro semi o i loro frutti. Pertanto, l’interesse dell’uomo verso i ruminanti, e quindi il loro rumine, ha le sue radici nel neolitico, e quindi circa 12.000 anni fa.

Questo interesse, diventato poi abitudine, è prepotentemente accelerato quando negli anni recenti l’uomo ha preso consapevolezza di essere in sovrannumero sul nostro pianeta, che c’è la necessità di nutrire tutta la popolazione della terra, e che se tutti mangiassero come gli occidentali non basterebbero tre pianeti per accontentarci. L’efficienza di conversione delle proteine vegetali e animali da parte dei monogastrici è molto alta e può ragionevolmente essere quantificata oltre il 50%. Nei ruminanti, e in particolare nella bovina da latte, l’efficienza di trasformazione della proteina metabolizzabile in proteina del latte è di circa il 30%, che è già un valore considerato eccellente. Se non servisse la caseina per produrre formaggi e anche la carne dei ruminanti, l’allevamento più razionale sarebbe sicuramente quello di polli, galline, tacchini e suini, anche se questi sono in competizione alimentare diretta con l’uomo per il mais e la soia, che rappresentano gli alimenti più importanti e utilizzati dai monogastrici. Le tensioni internazionali sui costi delle commodity agricole, dovute essenzialmente alle speculazioni finanziarie, e la pandemia di Covid-19, hanno ricordato ai decisori politici e all’opinione pubblica l’importanza che le Nazioni diventino sempre più autosufficienti nella produzione di cibo utilizzando anche aree diverse dalle pianure irrigue. Con queste premesse ecco tornare alla ribalta i ruminanti, capaci di utilizzare la fibra e l’azoto non proteico, e di ridurre all’indispensabile l’impiego del mais e della soia. Se questo tipo di animali non fosse accusato di essere tra i principali responsabili della produzione dei gas climalteranti, e quindi del surriscaldamento del pianeta, sarebbe il così detto “uovo di Colombo”.

Per trovare la soluzione a questo apparente ossimoro è assolutamente necessario aumentare il livello di conoscenze dell’ecosistema ruminale, e quindi del suo microbioma, e di come manipolarlo in funzione delle premesse sin qui fatte. Quelli che sono molto chiari sono gli obiettivi da raggiungere. Il primo è quello di aumentare l’efficienza della sintesi della proteina microbica (EMPS) per unità di OM o carboidrati degradati soprattutto delle cellulose piuttosto che l’amido. Il secondo è quello di ridurre in maniera consistente la produzione di metano enterico, ossia quello derivante dalle fermentazioni ruminali e intestinali.

Quello che si sa su quest’ultimo argomento è che paradossalmente le diete ad alta concentrazione di amidi sono meno “climalteranti” di quelle ad alta concentrazione di fibra. Le complessità che ostacolano la piena conoscenza dell’ecosistema ruminale sono molteplici. La semplificazione didattica che si fa per raccontare il microbioma ruminale porta a pensare che esso sia simile ad un grande acquario dove vivono in forma “planctonica” un gran numero di specie batteriche, di archea, funghi e protozoi, le cui proporzioni dipendono sostanzialmente dal tipo di cibo ingerito dal ruminante e dalla colonizzazione iniziale del rumine. In realtà, buona parte del microbiota vive organizzata in complessi biofilm all’interno dei quali esiste una profonda interazione, e quindi non solo competizione, tra microrganismi differenti. In questi “consorzi ruminali” il tipo di interazioni è ingente e in molti casi ancora sconosciuto. A puro titolo d’esempio possiamo citare il Treponema che aiuta il Fibrobacter succinogenes a penetrare nella parte cellulare della pianta e a depolimerizzare la cellulosa. Analoga interazione c’è tra alcune specie di funghi che si attaccano alle pareti fibrose per indebolirle e favorire l’accesso ai batteri.

Questi consorzi ruminali organizzati in biofilm rendono complessa l’individuazione di soluzioni finalizzate a migliorare la digeribilità degli alimenti fibrosi, siano essi foraggi o concentrati, e per il momento l’atteggiamento che prevale è quello empirico, ossia tentare seguendo il concetto della plausibilità di un’ipotesi. La strada di optare per il bilanciamento amminoacidico delle razioni al posto di un’indiscriminata riduzione della loro concentrazione proteica è sicuramente ineludibile vista la necessità di una riduzione sensibile dell’emissione enterica di metano. E’ anche importante, e ciò può apparire una contraddizione, ottimizzare la riduzione della quantità di amido delle razioni sia dei bovini da latte che di quelli da carne. Anche se razioni ad alta concentrazione di amido sono parte delle soluzioni per la riduzione del metano enterico, ragioni di tipo geopolitico, economiche e legate alla qualità del latte suggeriscono di andare in questa direzione. Abbiamo più volte scritto sulle pagine di ruminantia del potenziale rischio per la salute umana e delle bovine da latte dell’utilizzo di diete “ricche” di amido a causa dell’inevitabile produzione ruminale di grandi quantità di endotossine anche conosciute come LPS (lipopolisaccaridi).

La strada maestra per modulare il microbioma ruminale verso gli obiettivi fin qui discussi è quella di aumentare, attraverso le pratiche agronomiche, la selezione genetica e più attenti piani colturali, la percentuale di NDF digeribile (NDFD) delle diete dei ruminanti. Le tecniche analitiche NIRS consentono di effettuare un monitoraggio di questo nutriente più economico rispetto al passato, e questo permette di valutare con maggiore obiettività le essenze vegetali da coltivare e le razioni, in particolar modo della bovina da latte, se si utilizza il metodo CNCPS. Le diete ad alta concentrazione di NDFD sono di converso a bassa concentrazione di NDF indigeribile (iNDF), e spesso di amido. E’ ormai chiaro, anche a livello empirico, che le razioni ad alta concentrazione di amido sono ingerite in minore quantità grazie alla precoce “sazietà chimica” che esse inducono. Diete ad alta concentrazione di NDFD hanno ovviamente una concentrazione energetica (percentuale) minore ma vengono ingerite in grande quantità, per cui spesso le Mcal assunte sono maggiori di quelle ad elevata concentrazione di amido.

E’ bene ricordare che ogni aumento di un punto percentuale di amido delle razioni comporta una riduzione di 0.50 unità di NDFD nel tratto gastro-intestinale. Una delle principali obiezioni “tecniche” che viene rivolta a questa impostazione è che queste razioni possono far transitare dal rumine verso l’intestino grandi quantità di NDF indigerito. Questa situazione può essere apparentemente favorevole all’aumento della quota di proteina metabolizzabile di origine batterica, perché circa il 75% dei microrganismi ruminali vive nel rumine adeso alle pareti cellulari per cui è disponibile all’assorbimento intestinale una volta lasciato quest’organo. Le due tabelle sottostanti sono tratte dal Libro delle Analisi, ovvero una raccolta di analisi effettuate dal Laboratorio Analisi Zootecniche in collaborazione con Ruminantia. Osservando con attenzione le analisi medie degli insilati di mais effettuate in questo laboratorio si vede chiaramente che il valore dell’ NDFD a 12,30 120, 240, espresso come percentuale dell’aNDFom di questo alimento, è molto variabile, e lo stesso si può dire per i campioni di fieno di medica di 2° taglio della tabella successiva.

Conclusioni

La ricerca delle soluzioni per ridurre la quantità di concentrati amidacei e proteici, soprattutto d’importazione, passa inevitabilmente dall’avere foraggi di ottima qualità, ossia dotati di elevata digeribilità, siano essi di graminacee o di leguminose. Il CNCPS è un ottimo supporto per quei nutrizionisti che vogliano simulare il rendimento di razioni diverse dall’usuale perchè apparentemente povere, ma che potrebbero riservare sorprese produttive una volta applicate in campo. Per percorrere questa strada in maggiore sicurezza ci vorrebbe il supporto di maggiori evidenze scientifiche sulle conoscenze relative all’ecosistema ruminale. E’ anche importante che le aziende che producono additivi utili all’obiettivo di stimolare l’attività fermentativa del rumine e alla riduzione della produzione di metano enterico, e aminoacidi ruminoprotetti funzionali al bilanciamento amminoacidico, intensifichino le prove di campo e quelle scientifiche perché in casi complessi come questo possono essere di valido aiuto.