Tra gli animali domestici esistono profonde diseguaglianze in fatto di diritti, come quello di avere una vita dignitosa e il più simile possibile a quella che avrebbero condotto in natura. Una generica e ampiamente interpretabile legge italiana introduce nel codice penale il reato di maltrattamento degli animali. Il fatto che a cani, gatti, cavalli, piccoli roditori, rettili e uccelli domestici sia impedita ogni forma di libertà d’interazione sociale e di riproduzione, e che siano tenuti in ambienti molto diversi da quelli naturali interessa a pochi. La doma del cavallo, l’addestramento non sempre amichevole, la castrazione, l’essere condotti all’esterno con sistemi coercitivi come le briglie e i guinzagli, e il trattarli come bambini e il vestirli, non suscitano le ire dei movimenti animalisti e non stimolano sentimenti d’indignazione per la vita poco dignitosa che spesso s’impone ai così detti animali d’affezione.
Gli animalisti duri e puri dicono di amare tutti gli animali ma due sono le contraddizioni. La prima è che amare significa innanzitutto rispetto, e non sopraffazione fisica e psicologica e puro soddisfacimento dei propri bisogni edonistici e di antidoto alla solitudine. La seconda è che la percezione di benessere degli animali è profondamente diversa da quella dell’uomo e quindi non si possono somministrare agli animali d’affezione gli stessi ambienti e le stesse cure che si avrebbero per un figlio o per sé stessi. Non sono a conoscenza di movimenti animalisti che auspichino un ritorno di cani, gatti, cavalli, piccoli roditori, rettili e uccelli domestici alla vita selvaggia, ossia al pieno accettare le leggi della natura. Ad onere del vero, chi lo auspica anche per l’uomo viene per lo più classificato come uno stravagante svitato.
Diversa è invece la sorte che è toccata agli animali da reddito, ossia a bovini, capre, pecore, bufale, conigli, polli e tacchini, tanto per citare solo quelli più numericamente allevati. Per questi animali, moltitudini di persone, giornalisti, movimenti animalisti e politici, auspicano un ritorno alla natura e alla vita selvaggia, in modo che possano riconquistare il diritto di fare una vita dignitosa e quindi il più possibile vicina a quella che avrebbero avuto in natura. Questa moltitudine di gente pensa che se una “mucca” potesse scegliere, non esisterebbe a vivere per 365 giorni all’anno e per 24 ore al giorno in una prateria o in una boscaglia. In molti chiamano questo allevamento estensivo ma non è così. La natura vera, e non quella addomesticata dall’uomo, come i parchi o i giardini pubblici, è fatta di predatori, d’infezioni, di parassiti, di caldo, di freddo, di fame, di sete e di lotta per la sopravvivenza. C’è anche inoltre da dire che tutti gli animali domestici, sia d’affezione che da reddito, sono stati dapprima domesticati dall’uomo e poi selezionati per rispondere alle sue esigenze. Nel caso del cane si è trattato di farlo assomigliare sempre più ai bambini o ad aggressive macchine da difesa o compagni di caccia, mentre nel caso degli animali da reddito l’obiettivo è stato fare tanta carne e tanto latte. Nessuno di questi animali saprebbe più vivere in natura, ad eccezione di alcune razze bovine, come la podolica e la maremmana, e di molte razze ovine e caprine, che hanno conservato un po’ di indole selvaggia in modo che l’uomo potesse allevarle negli allevamenti estensivi.
Poi però qualche retropensiero sorge quando si sente l’acredine e il fanatismo di alcuni animalisti. Il dubbio di una piena onestà intellettuale viene quando si utilizza la parola “tutti” in frasi come “aboliamo l’allevamento intensivo perché lì tutti gli animali soffrono”, invece di stimolare le autorità competenti ad applicare l’articolo 544-ter del codice penale in tema maltrattamento degli animali. Sta di fatto che questa lotta ormai quotidiana contro gli allevamenti intensivi sta facendo breccia nella gente e sta spostando i consumi dal latte, dalla carne e dalle uova verso gli alimenti vegetali, anche se chi sta crescendo di più sono i cibi “artificiali”, anche detti ultraprocessati, con grande soddisfazione economica delle gigantesche multinazionali del cibo che li producono e li vendono.
Quello che è ancora più sorprendente è il fatto che la reazione del mondo degli allevatori e dell’industria del latte e della carne si sia articolata tra il fare finta di nulla per “non alimentare inutili polemiche” al testare compulsivamente con le checklist gli allevamenti per vedere se è garantito un generico e mal definito benessere degli animali. “Benessere animale” è un’espressione vaga e priva di un significato specifico, in quanto il benessere degli animali d’allevamento è un pre-requisito della produzione e del reddito, soprattutto quando si parla di produzione di latte. Questo concetto non è stato, a mio avviso, spiegato alla gente con la dovuta forza e chiarezza, come non è stata raccontata con fermezza e conoscenza la vera etologia degli animali da reddito, quanto questa sia profondamente diversa da quella dell’uomo e quanto la visione antropomorfizzata che l’uomo ha di tutto ciò che non è umano sia pericolosa per la tutela dei diritti degli animali.
L’aver valutato in Italia una percentuale importante di allevamenti di bovine con il metodo CReNBA ha avuto l’unico vantaggio di aver messo in evidenza alcune situazioni estreme di allevatori incapaci di fare il loro lavoro, e forse di agevolare le autorità competenti a vigilare che l’articolo 544-ter sia rispettato.
Quello che avrebbe dovuto essere approfondito prima di valutare gli allevamenti per il benessere animale erano gli aspetti culturali necessari per una migliore definizione dell’etologia degli animali allevati per produrre cibo, la consapevolezza del baco cognitivo dell’antropomorfizzazione e il fatto che la metodologia delle “checklist” può essere un buon modo di prendere appunti per un medico mentre la valutazione dei diritti degli animali di fare una vita sana e dignitosa in un determinato allevamento spetta ad una commissione composta da un medico-veterinario e da un etologo, e deve poi essere certificata, come ogni atto medico e perizia, in modo discorsivo su carta intestata, e non con un asettico e discutibile punteggio. Ammesso che si possa riabilitare il termine “benessere animale”, la sua certificazione oggettiva si potrà fare solo ed esclusivamente attraverso la raccolta sistematica di alcune performance produttive, riproduttive e sanitarie dei singoli animali in allevamento, utilizzando i molti sensori che si stanno diffondendo per necessità gestionali negli allevamenti.
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