Credo che siamo in molti ad essere sorpresi del fatto che il latte in Italia, salvo le dovute eccezioni, sia considerato ancora una commodity e sia quindi soggetto alle ampie fluttuazioni di prezzo del mercato, fatto si sa di domanda e di offerta. Sappiamo anche tutti molto bene che la produzione mondiale di latte ha un azimut e nadir in determinati e ricorrenti mesi dell’anno, diversi solo se le nazioni si trovano sopra o sotto l’equatore.

 

Siamo anche consapevoli che i prezzi degli alimenti zootecnici, dei concimi di base e del petrolio sono estremamente fluttuanti, fenomeno ampiamente giustificato dal fatto che queste merci sono gestite da poche ma gigantesche multinazionali che per le loro dimensioni possono legare i prezzi al rapporto domanda/offerta, fare cartello e, con il pretesto di una calamità, ritoccare a loro piacimento i listini di vendita. In fondo, che differenza volete che ci sia tra un petrolio estratto in Arabia Saudita e uno estratto in Venezuela oppure tra una soia coltivata in USA e una proveniente dall’Argentina? Si potrebbe obiettare che esiste la possibilità di regolamentare i prezzi d’acquisto degli alimenti zootecnici e il prezzo di vendita del latte con dei contratti di media o lunga durata in modo che gli allevamenti possano attentamente calibrare le risorse finanziarie di cui hanno bisogno e introdurre il concetto di budget nella loro gestione economica. La legge 91/2015 ha provato a regolamentare tramite contratti di durata annuale il prezzo del latte alla stalla, contratti messi spesso in discussione quando le condizioni di mercato non soddisfano più venditori e acquirenti anche prima della loro scadenza. Lo stesso avviene per i contratti d’acquisto delle materie prime. Più “fortunato” è il prezzo del gasolio agricolo, che gode di una maggiore stabilità in quanto meno legato alle fluttuazioni dei prezzi in origine del petrolio.

Per un allevamento, l’estrema volatilità dei prezzi del latte e la non “inviolabilità” dei contratti di cessione possono essere causa di grandi difficoltà nel programmare gli investimenti sia in beni strumentali che in risorse umane. Ciò causa danni diretti alle aziende agricole ma anche danni indiretti a tutti i potenziali fornitori di beni e servizi.

Ma come fare per stabilizzare nel breve, medio e lungo periodo sia il prezzo del latte alla stalla che i prezzi d’acquisto delle commodity?

La risposta a questa domanda è estremamente complessa per due ragioni. La prima è che il latte è un prodotto altamente deperibile e quindi non stoccabile a lungo, fatto che limita molto il potere contrattuale degli allevatori e delle cooperative di raccolta. La seconda è che gli allevatori sono tantissimi e spesso non organizzati in cooperative o consorzi, mentre chi acquista il latte e la GDO contano ormai pochissimi player. Gli alimenti zootecnici sono ormai commercializzati nel mondo da cinque gigantesche multinazionali.

Con il titolo di questa breve riflessione, che recita testualmente “forse è nel passato la soluzione ai problemi del latte”, non si intende che il passato fosse migliore ma il fatto che quello della stabilità dei prezzi di vendita e acquisto in agricoltura è un problema molto, molto vecchio.

Un antico interessamento dello Stato italiano per la “questione del latte” si è manifestato con il primo intervento legislativo in questo campo: la legge del 9 maggio 1929 nota come “carta del latte”. Allora il problema era quello di rendere fruibile latte sano in quantità ad una fascia sempre maggiore della popolazione. Il latte, alimento molto nutriente, ricco di proteine ad alto valore biologico e micronutrienti, era di fondamentale importanza per lo sviluppo del cervello e della muscolatura della popolazione che aveva per la gran parte gravi problemi di malnutrizione. Ovviamente un latte la cui produzione fosse ambita, perché remunerativa, da un numero sempre più ampio di agricoltori-allevatori, aspetto che oggi sarebbe definito molto sinteticamente come sostenibilità sociale.

Interessante per gli amanti della storia il libro Giorgio La Pira e il “piano latte”- La funzione sociale della Centrale. Già sul finire dell’800 in Italia nacquero i Consorzi Agrari, intelligenti e innovative società cooperative aventi come mission principale quella di essere veri e propri gruppi d’acquisto. Nel 1892 si costituiva a Piacenza la Federconsorzi, che diede un contributo importante negli acquisti di materie prime e nella logistica delle truppe in guerra. Poi nei primi anni del 1900 cominciarono a nascere le “Centrali pubbliche del latte”.

A mio avviso, si dovrebbe aprire in Italia un tavolo di riflessioni costruttive tra le organizzazioni che rappresentano gli allevatori, l’industria lattiero-casearia e la GDO per definire alcuni aspetti propedeutici alla ricerca di un metodo che porti ad una minore oscillazione del prezzo del latte alla stalla. La discussione potrebbe esplorare i seguenti aspetti:

  • Vista la notevole differenza di produzione delle stalle tra la primavera e l’autunno si potrebbe immaginare di avere due prezzi annuali del latte? Questo permetterebbe agli allevatori di organizzarsi.
  • Ha ancora senso parlare di prezzo del latte in Italia, o di qualche regione in particolare come la Lombardia, quando si deve dichiarare in etichetta la provenienza del latte e i prodotti a denominazione d’origine devono essere fatti sono con latte italiano?
  • Potrebbe essere il caso di qualificare ulteriormente il ruolo di gruppi d’acquisto dei Consorzi agrari e di tutela del prezzo del latte alla stalla delle Centrali del latte pubbliche?

E’ bene non dimenticare che i fallimenti passati di alcune di queste esperienze furono spesso dovuti alla piaga del voto di scambio che è, di fatto, l’opposto della meritocrazia.