Uno dei paradigmi più consolidati nella gestione delle bovine da latte è quello che lega positivamente la concentrazione energetica della dieta alla fertilità. Sessioni di diagnosi di gravidanza negative, una lenta ripresa dell’attività ovarica dopo il parto e le cisti ovariche, portano quasi sempre il ginecologo buiatra a pensare che la dieta delle bovine in quella fase sia carente d’energia. Aumentare la concentrazione energetica di una razione è molto semplice ed economico, perché tutte le equazioni di calcolo dell’energia netta o metabolizzabile sono molto sensibili ad amido e grassi. Se la soluzione fosse così semplice la “Sindrome della sub-fertilità della bovina da latte” non sarebbe la prima causa di riforma e non costringerebbe alla esecrabile scelta dell’adozione di piani di sincronizzazione ormonale sistematica sempre più complessi, costosi e mal visti dall’opinione pubblica. Forse è giunto il tempo di sostituire il paradigma secondo cui la concentrazione energetica della razione, calcolata con le principali equazioni oggi disponibili, è correlata positivamente con la fertilità con un altro punto di vista.

E’ innegabile che esista una correlazione positiva tra bilancio energetico e fertilità ma va vista alla luce della peculiarità con cui un ruminante produce quell’energia chimica (ATP) necessaria per avere follicoli, corpi lutei, ovociti ed embrioni di qualità. Nei ruminanti, come in tutti i mammiferi, i “combustibili” necessari per avere una sufficiente scorta di ATP sono il glucosio, alcuni amminoacidi e gli acidi grassi. Quello che li differenzia dagli altri è la modalità con cui approvvigionano l’organismo di queste preziose molecole. Buona parte del glucosio deriva dall’acido propionico prodotto dalle fermentazioni ruminali, dagli aminoacidi glucogenetici principalmente derivanti dal microbiota ruminale e dai grassi corporei.

Quando un nutrizionista viene sollecitato a calcolare una razione più energetica, inevitabilmente riduce la quota di foraggi della razione e la componente proteica, per fare spazio ad amido e grassi. In questa condizione si riduce il pH ruminale, essendo prodotta meno saliva. Oltre ad un sicuro aumento di acido propionico ruminale, il rumine produce grandi quantità di endotossine che derivano dai batteri ruminali che fermentano le fibre e che sono principalmente gram-negativi. Questi batteri hanno la necessità di un ambiente ruminale con un pH non inferiore a 6.00 ed il picco di produzione dell’acido propionico si ha quando il pH raggiunge il 5.80. I grassi, se non adeguatamente rumino-protetti o se derivano da oleaginose integrali come la soia integrale e il lino integrale o anche dal mais, sono tossici e letali per la flora microbica ruminale, provocandone la morte e quindi la liberazione di endotossine. Queste endotossine sono in grado di trasferirsi nel sangue e la bovina interpreta questa “invasione” come se ci fosse un’ infezione da batteri gram-negativi da qualche parte dell’organismo, mettendo in atto un profondo “riassetto” del suo metabolismo.

Paradossalmente, sia le endotossine, in modo diretto, che le citochine pro-infiammatorie, da esse stimolate, vanno a bloccare l’attività ovarica attraverso l’inibizione della produzione di GnRH e LH e a livello epatico, peggiorando la para-fisiologica condizione di insulino-resistenza della bovina da latte nelle prime settimane di lattazione. Quello che succede in pratica è che una razione più alta di “energia calcolata” è più rischiosa di una dieta più bassa d’energia, proprio per il rischio dell’endotossicosi. In queste condizioni di acidosi ruminale sub-clinica la vacca reagisce riducendo l’ingestione ed aumentando la produzione di latte, ma anche di proteine. Spesso questo fatto viene visto positivamente, specialmente da chi segue il parametro Efficienza Alimentare (FE), ma in genere è il momento dove avviene la massima produzione di endotossine e citochine pro-infiammatorie e quindi il più rischioso per la fertilità.

Dall’analisi delle performance della bovina da latte si evince che negli anni è cresciuta notevolmente la produzione pro-capite delle bovine ma, al contempo, è calata la fertilità. Esiste tra questi due fenotipi una scarsa correlazione genetica. Anzi, le bovine di alto potenziale genetico (HMG), avendo più ormone GH, sarebbero in teoria più fertili. In realtà questo non avviene perché nelle bovine HMG spesso il fegato è pieno di trigliceridi (lipidosi epatica), si hanno carenze secondarie d’amminoacidi, e quindi ridotta produzione d’IGF-1, e le diete loro somministrate sono ad alto rischio di endotossicosi.

Pertanto, per meglio gestire il bilancio energetico e proteico delle bovine “fresche” è consigliabile adottare la seguente procedura.

In assenza di un fabbisogno certo di amido nella bovina da latte è bene “affinare” la diagnostica d’allevamento dell’acidosi ruminale sub-clinica e dell’endotossicosi. Un sintomo importante, anche se non patognomonico, è la ridotta ingestione rispetto ad uno storico e verso le numerose equazioni di stima. Una razione ideale è quella assunta in grandi quantità e che quindi apporta molta fibra ruminabile (peNDF), amido e proteine, anche se la concentrazione di questi nutrienti è apparentemente modesta. La presenza nella dieta di emicellulose e cellulose molto digeribili (bassa UNDF) permette alla flora microbica, specialmente gram-negativa, di fermentare in maniera molto efficiente e quindi di produrre significative quantità di proteina metabolizzabile batterica (MP). Anche se la quantità di batteri che fermentano le cellulose (0.05 grammi di CHO/gr batteri/ora)  è minore di quella derivante dalla fermentazione degli amidi (0.15 grammi di CHO/gr batteri/ora), è pur sempre una quota importante se l’ingestione è molto elevata. La MP di origine batterica apporta alla bovina una quantità significativa di amminoacidi fondamentali anche per la produzione di energia chimica. Per avere il massimo tasso di crescita del microbiota ruminale, soprattutto della componente cellulosolitica, e quindi la produzione di una significativa quantità di proteina metabolizzabile, è necessario fornire al rumine azoto solubile attraverso fonti come urea, semola glutinata di mais, pisello proteico e favino.

Per mantenere il pH ruminale stabilmente vicino al 6.00 sono necessarie grandi quantità di saliva ricca di minerali come il sodio che dà anche la possibilità di aumentare l’assorbimento degli acidi grassi a livello dell’epitelio ruminale salvaguardandone l’integrità. Per non costringere la bovina ad avere un pH ruminale troppo vicino a quello che causa acidosi ruminale sub-clinica ed endotossicosi, pur mantenendo la produzione di proteina metabolizzabile di origine batterica ai massimi livelli, di grande importanza sono i foraggi di qualità, ossia quelli con un’alta la quota di NDF digeribile (DNDF) ed una bassa quota di quello indigeribile (UNDF), parametri oggi verificabili con apposite analisi. Questi obiettivi si raggiungono scegliendo le migliori cultivar e adottando concentrati fibrosi come le polpe di bietola, la semola glutinata di mais, i cruscami e le buccette di soia. Per avere un elevato tasso di crescita microbica ruminale, l’apporto proteico della razione deve essere adeguato soprattutto nella sua componente solubile. Probabilmente seguire la concentrazione di “energia calcolata” della razione può essere molto fuorviante per l’obiettivo di avere sufficiente “energia chimica” per l’attività riproduttiva.

E’ inoltre necessario un “uso prudente” dei grassi, specialmente di quelli non rumino-protetti, proprio per l’effetto tossico che hanno gli oli liberi nel rumine nei confronti del microbiota. Le potenzialità offerte dal MIR (infrarosso medio) per le analisi del latte di ogni singola bovina possono dare preziose informazioni sulla concentrazione dei singoli acidi grassi del latte e sulla concentrazione proteica e dei corpi chetonici. Queste informazioni sono utili ai nutrizionisti per formulare le diete delle bovine “fresche” e ai buiatri per meglio gestire i fattori di rischio della “Sindrome della sub-fertilità”.