Viviamo in un momento della storia dell’uomo dove l’accesso alle informazioni e alla cultura non manca davvero. Basta avere uno smartphone e una connessione ad internet e si può accedere a tutte le informazioni di cui si ha bisogno. Inoltre, la rete dà la possibilità di utilizzare sistemi che permettono di “parlare”, e comunque comprendere, tutte le lingue e l’intelligenza artificiale sta rapidamente infiltrandosi in tanti ambiti delle attività umane.
Come ci ripete spesso Umberto Galimberti siamo nell’era della tecnica e la tecnica alimenta se stessa perché non ha scopi.
Gli algoritmi, l’IA e la possibilità di trovare in rete qualsiasi informazione fanno nascere inevitabilmente la domanda: ma a cosa serve andare a scuola e studiare? Perchè buttare via i migliori anni della vita, che sono quelli della giovinezza, dietro i banchi della scuola di ogni ordine e grado? Forse possono avere un senso i percorsi di studio che servono a professionalizzarsi perché comunque la tecnica ha bisogno di persone altamente qualificate. Ma gli studi umanistici che senso hanno?
Non è da molti anni che questi dubbi si stanno insinuando nella mente della gente per cui è assolutamente necessario provare a darsi delle risposte perché “prevenire è meglio che curare”.
Fino a qualche decennio fa s’intendeva la scuola come il tempo e il luogo dove al discente venivano in primis forniti concetti da memorizzare per costruire il sapere individuale e allenare il più possibile la memoria.
Ci ricordiamo tutti quando, tanto tempo fa, si definivano colte le persone che, seppur prive di scolarizzazione, sapevano a memoria i Promessi Sposi e le poesie. Non era ancora il tempo dell’educazione ma dell’indottrinamento che serviva a far uscire dall’ignoranza tanta gente e la memoria era la funzione celebrale ritenuta più importante, e quindi da allenare. Anche l’intelligenza, ossia la capacità di adattarsi al nuovo, aveva il suo peso, ma mai come la memoria.
Con l’avvento di internet, e soprattutto della possibilità per tutti di “connettersi” alla rete, la quantità di informazioni di ogni tipo a cui si può accedere è diventata impressionante e difficile ormai da quantificare correttamente. I PC e gli smartphone sono dispositivi ai quali si ricorre per ricordare qualsiasi cosa o per cercare una informazione.
Spesso si sente dire che ormai essere ignoranti è una scelta, sempre che ciò sia sinonimo della cultura nozionistica. Se non si ricorda quando è nata Roma o quando è morto Napoleone, o come si prepara correttamente una torta di mele, basta digitare la domanda sulla stringa di un motore di ricerca e le risposte arrivano in un battibaleno.
Non serve più neanche ricordare a memoria i numeri di telefono o le strade, perché per ogni domanda ci sono app dedicate. Oggi semmai siamo arrivati ad un overload di informazioni, e quindi quello che serve è capire come gestirle e come trovare il bandolo della matassa.
Alla luce di tutto ciò la scuola deve servire essenzialmente a far innamorare i giovani della cultura, a non far appannare la figura dell’esperto e a sviluppare il senso critico in modo che lo studente possa farsi “idee proprie”, aspetto che non è alternativo al conoscere le nozioni ma assolutamente complementare.
A scuola poi si deve imparare a vivere in una società dove le idee e i modi di vivere sono necessariamente diversi da individuo a individuo e a dare un valore al conoscere il pensiero e le esperienze di altri. I professori, quindi, un po’ con l’esempio personale e un po’ con lo studio, devono insegnare ai ragazzi un metodo.
Le affermazioni fin qui fatte non servono nei paesi dove non c’è la democrazia. Nei sistemi mono o oligocratici chi comanda non ritiene essere un valore che la popolazione sviluppi un senso critico, e la cultura umanistica viene ritenuta superflua perché quello che si ricerca è il pensiero unico.
La storia dell’uomo ricorda che tante sono state le dittature che hanno messo in scena il macabro rituale di bruciare i libri, sia per cancellare la storia sia per impedire alla gente di pensare. Chi è colto e pensa con la propria testa è un pericoloso fastidio difficile da dominare. Interessante e consigliabile la lettura di “Bruciare libri” di Richard Ovenden (Solferino).
Nei momenti di maggiore incertezza anche la scuola perde il suo stile d’imparzialità, ossia quello di aiutare i ragazzi a ragionare. In molti siamo a conoscenza, diretta o raccontata, di episodi in cui i docenti cercano di orientare gli studenti verso questa o quella religione, verso un’ideologia politica ben precisa o verso uno specifico comportamento alimentare.
Le scuole delle nazioni democratiche devono essere il tempio della conoscenza e del confronto. Luoghi dove si insegna la cultura tecnica e umanistica, e dove nei giovani si forma lo spirito critico. Insegnare non è indottrinare ma educare, e i docenti che non lo fanno vanno redarguiti o allontanati senza se e senza ma.
Tanti sono stati i momenti in cui la scuola ha tradito la sua mission di “costruire” cultura, libertà e progresso, e questo ha creato un facile terreno dove sono cresciute le dittature. La scuola a mio avviso deve combattere con tutte le forze che ha il “pensiero unico”, perché non farlo sarebbe tradire la sua missione più importante, soprattutto in momento storico come questo dove internet e i suoi social stanno suddividendo l’umanità in gruppi dove si incontrano persone che hanno la stessa opinione e cercano solo conferme.
Il valore del dialogo e del confronto sta perdendo molto della sua potenza. Atenei che permettono a docenti, associazioni o gruppi di potere di rappresentare un solo punto di vista agli studenti senza rendere obbligatorio il contraddittorio devono essere consapevoli del danno che stanno facendo alla verità, all’immagine della scuola e al futuro dei giovani.
C’è un esempio su tutti che non voglio fare, ma i lettori attenti di Ruminantia sanno bene a cosa mi voglio riferire.
Scrivi un commento
Devi accedere, per commentare.