Per anni e anni si è raccomandato agli allevatori di diventare imprenditori e di farsi guidare dai dati più che dalle sensazioni per fare le scelte migliori in allevamento. Come era ovvio che succedesse, e anche grazie al ricambio generazionale avvenuto nel frattempo, non si può più dire che gli allevatori non siano diventati imprenditori e che in allevamento manchino i dati, ma questi sono soprattutto di natura tecnica; per i dati economici c’è molta strada da fare.
Una percentuale consistente di allevamenti partecipa ai programmi nazionali di selezione genetica proposti dalla tante Associazioni Nazionali Allevatori (ANA) italiane e, specialmente per gli allevamenti di vacche da latte dove vengono raccolti molti più fenotipi (produttivi, riproduttivi e sanitari), sono disponibili per gli allevatori soci molte informazioni “grezze” o elaborate sui singoli animali, sull’allevamento e sulla popolazione (benchmark).
Esempio su tutti è Si@lleva, il software gestionale dell’Associazione Italiana Allevatori (AIA) presente in molti allevamenti di bovine da latte dove si eseguono i controlli funzionali. Questo programma, oltre a raccogliere i dati inseriti dal controllore di AIA, viene alimentato dalle informazioni raccolte dagli allevatori e dai medici veterinari e serve sia per inviare i fenotipi alle ANA che agli allevatori e ai suoi consulenti per gestire l’allevamento e monitorare le performance individuali e collettive degli animali.
Oltre a Si@lleva ci sono in allevamento i software dei costruttori d’impianti di mungitura e software gestionali privati. In allevamento poi troviamo le analisi del latte sia dell’autocontrollo che quelle restituite dagli acquirenti del latte. Ci sono poi le elaborazioni fatte dal personale tecnico-commerciale di aziende che si occupano di genetica o di alimentazione animale.
Meno affollata la presenza dei dati economici, perché ancora non c’è un sistema nazionale permanente di raccolta che potrebbe essere utile per dare razionalità e oggettività al prezzo del latte alla stalla e aiutare gli allevatori e i loro tecnici a verificare il ritorno economico delle scelte fatte.
Questo overload d’informazioni tecniche va bene e offre un buon pretesto per poter fare un’offerta commerciale agli allevatori ma, se non gestito con razionalità, può generare estrema confusione e frustrazione.
Per non essere solo collezionisti di dati ma diventarne intensi utilizzatori è necessario condividere alcuni punti fermi. In agricoltura e in zootecnia, come in molte attività imprenditoriali, alcune scelte vengono fatte con motivazioni emozionali e non necessariamente perché danno un ritorno economico.
Di esempi se ne possono fare tantissimi, ma chiunque voglia analizzare in maniera professionale le performance di un allevamento deve propedeuticamente quantificare quanto il senso del piacere, anche detto edonismo, condiziona le scelte di quel determinato allevatore.
Un aspetto metodologico importante è che se non si può fare benchmark, ossia il confronto con le performance produttive, riproduttive, sanitarie ed economiche di allevamenti simili per indirizzo produttivo, dimensione e ubicazione geografica, è difficile dare un criterio di normalità. Confrontare una qualsivoglia performance tecnica ed economica con dati provenienti da allevamenti stranieri o da ricerche scientifiche condotte su un numero limitato di animali può risultare fuorviante.
Un altro concetto molto importante è anche gli animali sono individui e pertanto rispondono al medesimo ambiente, la medesima alimentazione, la stessa alimentazione e alla stessa presenza di patogeni in modo anche molto diverso. Quando vengono analizzati i dati, o eseguiti degli audit tecnici, sull’andamento di un allevamento dove risulta che fenotipi relativi alla produzione di latte, alla sua concentrazione di grasso e proteine, alla fertilità o (per quelli sanitari) alle cellule somatiche, non sono soddisfacenti, spesso la causa di ciò non è l’intero allevamento ma una percentuale più o meno elevata di animali.
In questi casi chi presenta il report deve prospettare delle soluzioni, altrimenti queste analisi non servono in concreto a nulla. Come si fa a correggere una scarsa produttività o fertilità o salute di animali che deprimono le performance medie dell’allevamento se essi vivono nello stesso ambiente, mangiano la stessa diete e vengono gestiti dallo stesso personale di stalla e curate dallo stesso veterinario?
Se esistono fattori di rischio collettivi, come una razione mal fatta o un ambiente di stalla non idoneo, perché i dati anomali si osservano solo in una parte degli animali?
Quando si analizzano i dati di un allevamento si deve avere la possibilità e la capacità di distinguere tra i fattori di rischio collettivi e quelli individuali, perché le misure correttive sono differenti e con esse i costi.
Se, ad esempio, in allevamento c’è una percentuale ritenuta troppo alta di diagnosi di gravidanza negative, è di fondamentale importanza decidere se si debba intervenire su tutti quei fattori che condizionano questa performance riproduttiva e su tutto l’allevamento oppure se si debba intensificare l’attività ginecologica solo su gli animali meno performanti.
Come conclusione si può affermare che avere il più possibile in allevamento dati “grezzi” o la loro elaborazione non necessariamente significa avere in mano saldamente il timone della gestione, perché a spesso succede che più informazioni si hanno a disposizione e più si alimenta la confusione.
Lo stesso si può dire per le tante elaborazioni di dati offerte dalle aziende commerciali che tendono a suggerire scelte tecniche ed economiche da applicare. In concreto sono pochi, se non pochissimi, i parametri da monitorare costantemente che devono entrare nel dashboard dell’allevatore e dei suoi consulenti. I parametri da scegliere devono essere collegabili alle soluzioni approntabili, altrimenti sono inutili e fuorvianti.
Aspetto di fondamentale importanza per l’allevatore è che un allevamento è costituito da individui che rispondono spesso in maniera molto diversa agli stimoli ambientali e nutrizionali e ai fattori di rischio delle malattie.
Un bravo tecnico deve sapere distinguere per ogni fenotipo che si è deciso di monitorare dove finisce la variabilità individuale e dove iniziano i fattori di rischio collettivo.
Un esempio su tutti possono essere le cisti ovariche e le diarree. Se in un allevamento si notano queste anomalie su un certo numero di animali, dove iniziano e dove finiscono i fattori di rischio individuali e quelli collettivi? L’epidemiologia e il benchmark hanno molte risposte da dare a questo quesito.
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