Ricordo che sono passati quasi trent’anni da quando una rivista del nostro settore invitò, in occasione della Fiera Internazionale del Bovino da Latte di Cremona, un selezionatissimo gruppo di consulenti e allevatori per parlare del conto economico dell’allevamento della bovina da latte. Ottima l’iniziativa ma fallimentare lo svolgimento e le conclusioni perché ognuno dei partecipanti aveva un modo diverso di assemblare i centri di ricavo e dei costi e c’era chi attribuiva agli alimenti prodotti in azienda valori completamente diversi che andavano dal costo di produzione al valore di mercato. In questi trent’anni molto è cambiato ma ad oggi quale sia il costo di produzione medio del produrre latte bovino per aree omogenee italiane nessuno lo sa e i risultati di chi ha provato a calcolarlo hanno lasciato tutti molto perplessi.

In quest’ultimo anno il prezzo del latte alla stalla è stato soddisfacente ma chi segue i social network avrà notato che sono pieni di post di allevatori che affermano di lavorare in perdita. La scellerata decisione dell’amministrazione Trump di imporre dazi del 25% su alcuni importanti formaggi italiani, il mercato del latte mondiale, le materie prime in mano a poche e gigantesche multinazionali e la crisi ambientale richiedono un rapido “serrate le file” alla produzione primaria del latte per affrontare eventuali scenari di crisi con i giusti mezzi.

In molti hanno provato a sensibilizzare gli allevatori sul considerare il conto economico come primario strumento di gestione ma con scarso successo. E’ ancora diffusa l’abitudine di considerare solo i dati tecnici o parametri economici molto “fragili”, come il costo della razione o l’IOFC, per giudicare la qualità di un allevamento. Si considera “bravo” l’allevamento che fa oltre 40 kg di media e ha ottimi parametri riproduttivi a prescindere dal MOL (margine operativo lordo), o meglio dell’utile di esercizio, come se vi fosse una correlazione diretta tra fatturato e utile d’esercizio.

Mi sono sempre chiesto, e con spirito costruttivo, perché la “cultura del conto economico” non sia mai entrata con profondità nella gestione dell’allevamento delle bovine da latte. Forse perché “occhio non vede cuore non duole”? Perché gridare sempre “al lupo al lupo” con l’industria del latte giova a spuntare prezzi del latte alla stalla sempre maggiori? O perché il margine economico di allevare vacche è talmente alto da non richiedere grande attenzione alla continua osservazione del conto economico? Ho sentito spesso, e con dispiacere, gli industriali del latte definire gli allevatori come “lamentatori seriali” oppure li ho visti non ascoltarli per niente perché tanto guadagnano sempre troppo. Di converso, ho spesso sentito tanti allevatori affermare che tanto per produrre il latte ci si rimettono i soldi. Questa espressione è molto forte ed a mio avviso va utilizzata con cautela perché presuppone il fatto che ogni anno si debbano prendere soldi dai risparmi o dal credito bancario per evitare la chiusura dell’azienda. La terminologia “rimetterci” non può avere altro significato.

Mi ha sempre lasciato molto perplesso che ancora oggi nessuna istituzione italiana o sindacato di categoria abbia istituito un osservatorio nazionale che monitorizzi i bilanci delle aziende zootecniche al fine di conoscere, per aree geografiche omogenee e tipologia d’allevamento, il valore medio e le oscillazioni da esso dei principali centri di costo e di ricavo, il costo di produzione del latte e quindi il punto di pareggio, definito anche “break even point”. Tutto ciò non tanto per motivi fiscali quanto per assistere gli allevatori nella trattativa del prezzo del latte, avere argomenti oggettivi per parlare a Bruxelles di aiuti comunitari e prepararsi all’impatto fortemente negativo delle guerre dei dazi o a qualche calamità futura. Al solo scopo conoscitivo mi capita spesso di chiedere ai tanti allevatori che quotidianamente incontro: “Ma qual è l’utile di esercizio che ti aspetti dall’allevare vacche? Sai grosso modo qual è quello delle aziende che ti forniscono beni, come i mangimisti e le industrie farmaceutiche o sementiere? E quello di chi ti compra il latte? E’ difficile che io ottenga risposte a queste domande mentre se chiedo dati genetici, produttivi e riproduttivi le risposte sono sempre precise e puntuali.

Sono convinto che la favola di Esopo “al lupo al lupo”, scritta circa 2500 anni fa, ci avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Lanciare spesso un allarme non sempre dà il risultato sperato perché poi non si viene più ascoltati e questo non è sicuramente un bene dal momento che la storia c’insegna che le crisi sono sempre in agguato e che è ben affrontarle pensandoci per tempo e con le dovute “armi”.