Sono ormai tre anni che vado in Cina per conferenze e visite negli allevamenti da latte e le impressioni che ne ricavo sono le stesse per cui credo possa essere utile condividerle con voi, lettori di Ruminantia. Dopo ormai trent’anni d’attività ho visto molti cambiamenti nei nostri allevamenti e noto sempre di più che più di fare tesoro degli errori del passato si tende troppe volte a ricominciare da capo. La produzione di latte in Cina sta crescendo a ritmi vorticosi spinta da una domanda di latte in crescita esponenziale, incentivata, ultimamente, da un prezzo del latte alla stalla di ben oltre 50 centesimi al litro. Le ragioni di questo sono semplici. La prima è che la “ presunta” intolleranza al lattosio dei cinesi è più dovuta ad una scarsa abitudine a consumare latte a causa della sua insufficiente disponibilità. La seconda è che in un paese abitato da quasi 1.5 miliardi di persone la terra coltivabile è sempre più un bene prezioso e i bovini non  sono un  concorrente alimentare diretto dell’uomo perché possono trasformare foraggi e azoto semplice in latte e carne. La terza è che il latte è un alimento prezioso per sfamare bambini ed anziani in un paese dove oltre 400 milioni di persone sono sotto la soglia della povertà. La quarta è che il latte e suoi derivati stanno entrando prepotentemente nelle tavole dei cinesi ricchi. Andare in Cina è come ripercorrere il nostro passato ma con dimensioni inimmaginabili e nel contesto di una disponibilità di liquidità impressionante. Gli allevamenti cinesi sono per la maggior parte di grandi dimensioni e gestiti alla “cinese” ossia con una disciplina “militare” . E’ facile trovare stalle di oltre 10.000 capi  con produzioni ben al di sopra dei 30 chili pro-capite.

La grande liquidità disponibile dallo stato, ma anche immessa da gruppi misti privati di capitale per lo più australiano, e la necessità di produrre rapidamente li porta spesso ad adottare strutture, alimenti e sistemi di gestione copiati dall’occidente. Il know-how   è maggiormente nord-americano e israeliano ed è per lo più acriticamente adottato nella realizzazione di stalle e nella loro gestione in un territorio climaticamente e socialmente molto diverso dall’occidente. Mi è capitato di visitare uno splendido allevamento di Shanghai di oltre 8000 vacche in lattazione  dove sono state adottate tutte le migliori tecnologie oggi disponibili al mondo ma per lo più adatte nel Nord- America dove sia il clima che i servizi di assistenza tecnica sono molto diversi dal quell’area della Cina. Anche noi nel nostro passato, e purtroppo anche nel nostro presente, abbiamo fatto questo ossia l’importare “acriticamente” il know-how straniero  nel nostro paese prescindendo dalle diversità culturali e produttive italiane.

Il ritenere le “ cose straniere”, o meglio quelle che vengono da lontano, migliori a prescindere è tipico dei paesi in via di sviluppo e a mio avviso  fuori luogo per la nostra Italia. Si nota con evidenza che in Cina mancano delle strutture centrali forti di valutazione e validazione delle tecnologie e della ricerca effettivamente da adottare per lo sviluppo della produzione di latte. Questo si nota nella scelta dei tori, delle strutture delle stalle, dei piani colturali e dei cosi detti “protocolli di gestione”. Credo che per l’Italia, memore dell’esperienza dei paesi emergenti, serve un piano di sviluppo della nostra già eccellente zootecnia. Un progetto centrale di validazione di quali tecnologie e quali ricerche siano adottabili per la nostra crescita e soprattutto di governi che credano che la ricerca in agricoltura sia d’interesse strategico per il nostro sviluppo.

Credo sia il tempo di abbandonare l’ancora frequente espressione di valutazione qualitativa delle informazioni“ l’ha detto l’americano” per un  più maturo “prendiamo dal mondo il meglio che c’è ma valutiamolo con la nostra testa”. I nostri errori del passato e gli errori di nazioni tecnologicamente più giovani di noi  devono insegnare a non ricominciare ogni volta da zero ma almeno da tre come il buon Massimo Troisi c’insegnò.