In realtà il proverbio dice “Non si va in paradiso a dispetto dei santi”, ossia che non si entra in un gruppo dove non si è graditi, ma il primo editoriale di Ruminantia del 2019 vuole ribaltare l’affermazione in positivo.
Si deve ”andare in paradiso a dispetto dei santi”, per sottolineare il fatto che, nel mondo, paura e ignavia sembrano oggi prevalere in chi deve prendere decisioni di pubblico interesse. Questi individui appaiono privi di una visione di lungo periodo, non condizionata dalle sempre incombenti prossime elezioni, per quanto riguarda i politici.
E’ vero che in ogni parte del mondo per vincere le elezioni o scalare posti di potere bisogna parlare agli istinti dell’uomo (homo sapiens), quelli sepolti sotto una coltre di secoli di cultura e religione, ma questa antichissima parte dell’uomo si “rigira” rapidamente se non si sente soddisfatta e gratificata, proprio perché istintiva.
Ma veniamo al dunque. Abbiamo più volte evidenziato nei nostri articoli del 2018 come nella gente stia positivamente crescendo il senso di colpa per come lasceremo il pianeta ai nostri figli e ai nostri nipoti e per come vengono trattati gli animali d’allevamento.
E’ ancora vivo in molti, se non in tutti, il brivido che ci ha dato l’intervento di Greta Thunberg, quindicenne svedese, davanti ai leader di 198 paesi presenti alla conferenza COP 24 sul surriscaldamento del pianeta che si è tenuta a Dicembre 2018 a Katowice in Polonia.
Il fatto nuovo di questi ultimi tempi, che forse è sfuggito ai leader politici mondiali, è che grazie alla Rete la gente di tutto il mondo parla e si confronta continuamente, cosa che prima non sarebbe stata possibile. Inoltre, le imprese hanno capito che di “necessità si può fare virtù” e quindi che cavalcare la sostenibilità vera e misurabile può essere un gran bel business, che fa bene alla salute del nostro pianeta e agli ovvi interessi economici delle imprese che cavalcano l’onda. Si può quindi “andare in paradiso a dispetto dei santi”. Non da morti ma ora, al massimo domani mattina. La gente è in possesso in quanto consumatore della potentissima arma dell’acquisto, ossia della possibilità di scegliere se comprare o non comprare una determinata merce, e in quanto cittadino di quella del voto, e anche questa consapevolezza sta rapidamente crescendo.
Abbiamo davanti agli occhi molti esempi concreti e recenti ma ve ne raccontiamo solo tre.
La vicenda della Melegatti di Verona ha colpito molto l’immaginario collettivo. Questa azienda, fondata nel 1894, nonostante abbia inventato il pandoro, chiude per debiti a Ottobre del 2017. Nonostante l’ingresso di denaro del fondo maltese Abalone abbia permesso di riaprire l’attività il 12 Dicembre, sempre dello scorso anno, si interrompe di nuovo l’attività per l’impossibilità di pagare i fornitori a causa del grande debito pregresso. Sui social network si scatena a quel punto una gara di solidarietà verso un azienda così densa di storia e verso i lavoratori rimasti a casa. Gli acquisti di pandoro sono talmente numerosi da permettere alla fabbrica di riaprire e continuare a produrre. Quest’anno la Melegatti ha prodotto e venduto oltre 500.000 pandori.
Un altro esempio su cui riflettere è quello delle auto elettriche, sia ibride che plug-in. Le case automobilistiche hanno intravisto il colossale business che può derivare dalla sostituzione dell’attuale parco auto circolante a combustibili fossili con uno a ridottissima produzione di CO2 e a zero particolati e polveri sottili. Gli analisti del mercato dell’automotive hanno verificato e calcolato che esiste una consistente fascia della popolazione pronta a passare all’elettrico senza una motivazione economica (risparmio diretto) o legislativa, ma solamente per ragioni etiche. Nonostante la lentezza elefantiaca dei governi e le evidenti “interferenze” delle lobby del petrolio, la legislazione in tema di emissione delle auto diventa ogni giorno più rigida. Nei primi 9 mesi del 2018 sono state vendute in Cina, Europa, Usa e Giappone ben 1.000.000 di vetture elettriche, di cui 600.000 nella sola Cina, con una crescita dell’88% rispetto al 2017.
Ultimo esempio estremamente didattico è quello dell’olio di palma. Era da tempo che organizzazioni ambientaliste come Greenpeace e Friends of the Earth stavano denunciando i gravi effetti collaterali negativi della produzione di olio di palma sui delicati ecosistemi della Malesia, dell’Indonesia e della Papua Nuova Guinea. Per aumentare le superfici da coltivare a palme (Elaeis guineensis) gli agricoltori devono disboscare la foresta pluviale, privando l’Orango del suo habitat naturale e mettendone quindi a repentaglio la sopravvivenza. Inoltre, la produzione di olio di palma è considerata la terza fonte di emissione di anidride carbonica dovuta alle attività umane. Accanto a queste motivazioni ambientalistiche si sono affiancate quelle salutistiche dovute al sospetto che l’olio di palma faccia male alla salute. Non volendo entrare nel merito e discutere se queste argomentazioni etiche e salutistiche siano fondate, sta di fatto che il sentire collettivo attraverso i social network ha “deciso” di boicottare il consumo di olio di palma al punto di rendere il claim “palm oil free” importante quanto il “gluten free” e forse il “GMO free”. Da tutto ciò ne ha tratto un vantaggio indiretto anche l’industria lattiero-casearia, in considerazione del fatto che il burro è una valida alternativa all’olio di palma. Per dare un ordine di grandezza del fenomeno basti pensare che dei 156.9 milioni di tonnellate di latte prodotte in Europa (EU28) nel 2017 il 37% è servito a produrre formaggi, il 29.3% per fare burro e l’11.1% è stato utilizzato per il latte da bere.
Anche il latte e la carne sono entrati negli ultimi anni nell’occhio del ciclone a causa d’inchieste giornalistiche e dell’azione delle onlus animaliste e ambientaliste. Soprattutto alla produzione del latte sono state mosse più o meno le stesse accuse etiche e salutistiche dell’olio di palma, con l’aggravante della sofferenza degli animali. A differenza di quanto però è successo nei tre esempi menzionati, ma non sarebbero i soli, la reazione dell’industria lattiero-casearia è stata pressochè nulla, limitandosi solamente alla valutazione del benessere degli animali in allevamento e all’apposizione della sua certificazione sulle confezioni. Nulla è stato fatto per migliorare le conoscenze etologiche sulle bovine da latte, per verificare se le attuali tecniche d’allevamento siano o meno gradite alle bovine e per capire se le certificazioni siano in grado di rassicurare i consumatori a cui sono state somministrate dalla stessa industria lattiero-casearia che per anni ha proposto improbabili campagne pubblicitarie con bovine libere sui pascoli. Campagne che hanno rafforzato la visione antropomorfizzata che la gente ha degli animali sia domestici che selvatici. Ha prevalso nell’industria e nei Consorzi di tutela dei prodotti a denominazione, con le dovute ma rare eccezioni, la convinzione che queste mode stravaganti degli animalisti e dei vegani “tanto passeranno”, piuttosto che la necessità di immaginare un nuovo business da intraprendere, magari alternativo al mettere nei listini le bevande vegetali, sicuramente utili per far quadrare i conti ma non per dare un futuro alla filiera del latte.
Ci auspichiamo quindi per l’anno che è appena iniziato che la zootecnia e l’industria ad essa legata capiscano, come hanno già fatto molti altri settori anche nell’agroalimentare, che la gente aspetta prodotti etici, ossia prodotti ottenuti nel rispetto della dignità degli animali e dell’ambiente. Per questi prodotti, se ben comunicati, il consumatore è anche disposto a pagare di più. Speriamo che l’industria del latte e della carne, e i Consorzi di Tutela, abbiano fatto tesoro del fatto che i messaggi pubblicitari naïf fin qui utilizzati, più che rassicurare i consumatori, li hanno fatti sentire ingannati. Ci auguriamo che nel 2019 cambi il rapporto tra allevatori, industria lattiero-casearia, GDO e indotto e che si capisca che solo una filiera integrata che condivide, anche economicamente, il business può seguire i fluidi e quindi mutevoli desideri della gente senza il rischio di precoci estinzioni. Lasciamo nel passato il modus operandi “mors tua vita mea”, buono allora ma suicida adesso.
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