
Nelle democrazie autentiche, come in buona parte dell’Unione europea, i cittadini godono di diritti ma hanno anche doveri. Se da un lato i diritti vengono spesso rivendicati (sebbene non sempre nella loro totalità), dall’altro i doveri generano frequentemente insofferenza. Eppure, è proprio il rispetto di questi obblighi il prezzo da pagare per garantire la libertà di espressione, il diritto di voto e la possibilità di aspirare a una vita migliore.
La storia ci insegna che l’uomo anela alla libertà e alla giustizia, ma una volta ottenutele tende a dimenticarne il valore. Questa debole memoria collettiva potrebbe essere un limite inscritto nel codice genetico dell’Homo sapiens, oppure il riflesso della natura umana, che, in modo distruttivo e spesso inconsapevole, sembra inclinata verso il conflitto e la sofferenza.
Un’idea simile viene espressa nella trilogia cinematografica Matrix, quando il personaggio dell’Architetto rivela che la prima versione della simulazione fallì perché offriva agli uomini un mondo perfetto, privo di problemi. L’essere umano, però, non si adattò a quell’illusione idilliaca, segno che l’imperfezione e la lotta sono parte integrante della sua essenza.
I diritti conquistati nei secoli precedenti all’affermazione della democrazia sono numerosi e trovano la loro massima espressione nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Oltre alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, sarebbe utile rileggere periodicamente anche la Costituzione Italiana, per non dimenticare i valori fondamentali che costituiscono il collante dell’Occidente e che devono essere difesi con fermezza ogni giorno, anzi, ogni minuto.
Tra i numerosi diritti sanciti da queste fonti, vi è anche il diritto alla verità (noti anche come diritti aletici), originariamente legato al diritto internazionale umanitario, che garantisce ai familiari la facoltà di conoscere la sorte dei propri congiunti.
Oggi, però, questi diritti assumono un significato ancora più ampio: conoscere la verità su un fatto, una storia o una persona è essenziale per una piena integrazione nella società e per evitare giudizi affrettati su questioni complesse e spesso poco conosciute. Le false narrazioni alimentano pregiudizi e stereotipi, che nel corso della storia hanno portato a conseguenze drammatiche, scrivendo alcune delle pagine più buie dell’umanità.
L’istruzione rappresenta il presupposto fondamentale per poter esercitare il diritto alla verità, un percorso che ogni cittadino occidentale intraprende attraverso un lungo e strutturato iter educativo.
Anche nei regimi autoritari esistono scuole, ma il loro scopo non è tanto quello di insegnare la verità quanto di plasmare il pensiero e indottrinare la popolazione. Non a caso, la storia è segnata da numerosi roghi di libri, simboli della volontà delle dittature di soffocare il libero pensiero. Un’analisi illuminante su questo tema si trova nel volume “Bruciare libri. La cultura sotto attacco: una storia millenaria” di Richard Ovenden, che ripercorre secoli di distruzione della conoscenza per paura che i cittadini sviluppassero idee proprie.
La lettura è la chiave per preservare l’indipendenza intellettuale e sottrarsi al rischio di essere facilmente manipolati. L’avvento di Internet e dei social media ha connesso l’umanità e reso la conoscenza accessibile a tutti. Tuttavia, il ruolo del giornalismo resta cruciale: i giornalisti hanno, o meglio dovrebbero avere, la responsabilità di raccontare i fatti con obiettività, distinguendo chiaramente tra informazione e opinione. In un’epoca in cui la quantità di notizie disponibili è sconfinata, la mediazione giornalistica è più che mai essenziale per garantire un accesso consapevole e critico alla verità.
Lentamente, quasi senza che ce ne accorgessimo, i motori di ricerca e i social media hanno iniziato a filtrare le notizie attraverso algoritmi sempre più sofisticati. Inizialmente, l’obiettivo era probabilmente lodevole: offrire agli utenti contenuti rilevanti, evitando di sommergerli con un eccesso di informazioni difficili da gestire. Tuttavia, con il tempo, i giganti del web hanno acquisito la capacità di profilare in modo estremamente dettagliato ogni individuo, raccogliendo dati personali di enorme valore non solo per il commercio e l’industria, ma anche per la politica.
Abbiamo accettato questo meccanismo senza troppe resistenze, considerandolo il prezzo da pagare per un accesso illimitato alla rete, per poter interagire con il mondo dalla comodità della nostra poltrona e, soprattutto, per poterlo fare gratuitamente. Così, un ristretto gruppo di miliardari, ovvero Sergey Brin, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Elon Musk e Bill Gates, ha costruito imperi basati su Google, X, Facebook, YouTube, Linkedin e Instagram, strumenti che connettono l’umanità senza costi apparenti,ma che hanno reso loro gli uomini più ricchi del pianeta.
I regimi autoritari conoscono bene il potere del web: sanno quanto sia vantaggioso poter orientare l’opinione pubblica attraverso la manipolazione dell’informazione, così come temono la rete quando sfugge al loro controllo. Perché se da un lato Internet può essere un potente strumento di propaganda, dall’altro, se lasciato libero, diventa il più efficace custode dei diritti alla verità.
La prima cosa che colpisce visitando i Paesi solo apparentemente democratici è il rigido controllo sui contenuti della posta elettronica e le pesanti limitazioni all’accesso ai motori di ricerca e ai social media. Non so esattamente con quale meccanismo operino, ma esistono intere liste di parole e frasi intercettate e bloccate in questi luoghi oscuri.
Mi sono sempre immaginato schiere di zelanti funzionari, acerrimi nemici della libertà di informazione, intenti a monitorare e censurare tutto ciò che veicola concetti scomodi o proibiti. In realtà, oggi questo compito è affidato a sofisticati algoritmi che, grazie all’intelligenza artificiale, filtrano e regolano i contenuti con un’efficacia inquietante, e, paradossalmente, alcuni chatbot dimostrano maggiore neutralità e professionalità di certi giornalisti.
Fino a poco tempo fa, la profilazione degli utenti serviva prevalentemente a suggerire prodotti mirati, una pratica che, per quanto invasiva, poteva essere considerata il prezzo da pagare per accedere gratuitamente ai contenuti online. Oggi, però, si spinge molto oltre: vengono tracciati orientamenti politici e religiosi, opinioni personali e persino le nostre vulnerabilità emotive, con l’obiettivo di testare la nostra reazione a fake news costruite ad arte, affinando sempre più le strategie di manipolazione.
Chiunque abbia navigato su Facebook o altri social si sarà imbattuto in post di evidente disinformazione diffusi da troll, così come avrà notato l’allungarsi della lista di parole bandite e sottoposte a censura. Emblematico è lo sfogo di Giulia Spadafora della redazione di Ruminantia nell’articolo “Caro algoritmo, possiamo parlare”, pubblicato il 28 febbraio 2025 sulla nostra rivista.
Nel frattempo, giornalisti e politici — non tutti, ma troppi — diffondono bugie con sconcertante disinvoltura, contraddicendosi di continuo e minando giorno dopo giorno il diritto alla verità. Questo genera un pericoloso disorientamento in una società che, per quanto secolarizzata, conserva ancora radici giudaico-cristiane, scritte, in parte, nelle tavole dei Dieci Comandamenti.
Ma cosa possono fare coloro che credono che i diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalla Costituzione Italiana siano sacri e rappresentino un argine indispensabile contro la parte più brutale della natura umana? Semplicemente rileggerli, considerarli una sorta di Bibbia laica e diffonderne il contenuto ovunque e con ogni mezzo possibile, senza mai stancarsi né voltarsi dall’altra parte.
Autore
Alessandro Fantini – Dairy Production Medicine Specialist Fantini Professional Advice srl
Email: dottalessandrofantini@gmail.com