Affrontare con intelligenza e cultura il tema dei diritti degli animali ha due importanti motivazioni e ricadute. La prima è etica o morale, ossia quella che appartiene a cittadini che alle spalle hanno millenni di storia e cultura e che sanno rapportarsi correttamente e con equilibro con la società contemporanea alla quale appartengono. Questo tipo di persone è molto diffuso in tutti i ceti sociali e le professioni, ed è anche molto presente tra gli allevatori, e più in generale tra gli agricoltori. È difficile valutare se siano la maggioranza, anche perché vivono le attenzioni etiche come una questione personale, per cui spesso non sentono l’esigenza di manifestarle in modo eccessivo e a volte palese. La seconda motivazione è speculativa e non è assolutamente in contraddizione con la prima. Se avere a cuore i diritti degli animali, la sostenibilità delle produzioni e una società più giusta è anche funzionale a migliorare il personale tenore di vita e la prosperità economica della propria impresa, cosa c’è di male? Tutti noi sappiamo che se qualcosa si fa con amore e passione, essa avrà maggiori probabilità di successo rispetto ad attività sterili e poco empatiche.
In uno specifico articolo abbiamo sintetizzato alcune conclusioni contenute nel report 2021 dell’Osservatorio immagino (OI) relativamente ai claim della categoria “rispetto degli animali“. Dei 125.431 prodotti alimentari che fanno parte del paniere considerato dall’OI, il 10.6% riporta claim riconducibili alla categoria prima citata. Questi prodotti “pesano” come valore per il 7.5% del totale e hanno un trend di crescita positivo. Nel periodo Giugno 2020 – Giugno 2021 la crescita è stata dell’1.1 %, mentre nello stesso periodo dell’anno precedente è stata del 3.8%. I claim e i loghi che appartengono a questa categoria sono Friend of the Sea, Cruelty Free (logo), ASC, No Cruelty (claim), MSC e Benessere Animale. Quest’ultimo claim si trova sullo 0.3% dei prodotti del paniere OI che rappresentano in valore l’1% delle vendite ed è in calo dello 0.2% nel periodo Giugno 2020 – Giugno 2021, a testimonianza del fatto che questo concetto, e il modo di misurarlo e di comunicarlo, è pressoché incomprensibile ai consumatori.
Nel frattempo la tutela dei diritti degli animali e dell’ambiente è entrata nella Costituzione italiana, e in quelle di molti altri paesi europei.
Quello che gli osservatori sui consumi non rilevano è il “numero di persone che stanno modificando il loro comportamento alimentare” per ragioni etiche e salutistiche legate proprio alla convinzione che gli allevamenti, specialmente intensivi, creano sofferenza agli animali e sono tra le principali cause sia di sfruttamento dell’ambiente che del surriscaldamento del pianeta. Quello che fino ad oggi è stato messo in campo, sia per valutare il benessere degli animali d’allevamento che per apportare dei correttivi, andava assolutamente fatto, anche se il metodo scelto dal Ministero della Salute è stato costruito con alcuni gravi errori di fondo e molta superficialità. Che ci sia un errore metodologico anche in sede europea e che stia crescendo esponenzialmente l’irritazione dell’opinione pubblica è testimoniato dal fatto che si sta chiedendo a gran voce la nomina in sede europea di un Commissario che si occupi dei diritti degli animali.
Per recuperare il troppo tempo perduto, due sono a mio avviso le azioni da fare, che se ben concertate possono avere tempi molto brevi di realizzazione. La prima, propedeutica a tutto, è la definizione di quali siano le condizioni d’allevamento che oggettivamente consentono agli animali (food animal) di fare una vita dignitosa e il più simile possibile a quella che avrebbero fatto in natura. Si tratta in pratica di incaricare scienziati di chiara fama e di provenienza internazionale di tratteggiare l’identikit etologico delle specie animali allevate a fini alimentari.
La seconda è costituire due gruppi di lavoro coordinati da una commissione che rappresenti sia il Ministero della Salute che quello delle Risorse Agricole dove discutere come rilevare gli aspetti di benessere animale “animal based” e quelli “non animal based”. Il primo è tipicamente di competenza della medicina veterinaria mentre il secondo delle produzioni animali e più in generale delle scienze agrarie. Valutare se gli animali in un determinato allevamento siano in una condizione di benessere psico-fisico presuppone conoscenze epidemiologiche, cliniche e diagnostiche, e quindi tipicamente mediche.
La complessità non è legata al valutare se i singoli individui stiano bene in allevamento, e quindi se vengono rispettati i requisiti di igiene, cura e etologici, ma che lo sia la maggior parte di loro. Anche se non è un metodo propriamente scientifico, nella clinica d’allevamento si utilizza il criterio del 10-15%, per cui se una determinata patologia, o meglio un determinato sintomo, si presenta in un numero di animali inferiori alla soglia del 10-15%, esso non è attribuibile a fattori di rischio ed eziologici comuni ma individuali. I medici veterinari abilitati a verificare lo stato di salute fisica e mentale degli animali in un determinato allevamento avranno tutte quelle competenze necessarie a considerare i dati registrati manualmente o automaticamente dai sensori indossabili come supporti diagnostici oggettivi. Le valutazioni non animal based sono di competenza degli zootecnici e degli zoonomi perché presuppongono conoscenze approfondite, oltre che di etologia animale, anche di nutrizione, gestione e ambienti d’allevamento. Le valutazioni non animal based devono stabilire se le aree di riposo, abbeveraggio, alimentazione e socializzazione sono ben costruite e di spazio adeguato. I percorsi formativi accademici oggi disponibili sono Scienze Zootecniche e Tecnologie Animali (LM-86), Scienze e Tecnologie Agrarie (LM-69) e Scienze Zootecniche e Tecnologie delle Produzioni Animali (L-38). I primi due consentono l’accesso all’Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali mentre la L-38 no.
I vantaggi dati agli allevamenti di ruminanti dalle competenze sinergiche e non conflittuali dei medici veterinari e degli zootecnici/zoonomi furono già intuiti e definiti nel Piano Agricolo Nazionale predisposto in applicazione della legge 984/77 con una parte di esso conosciuto ai più come Piano Ipofertilità che diede impulso e razionalizzazione ad una zootecnia che stava evolvendo dal metodo rurale a quello imprenditoriale. Ideale sarebbe che la transizione verso un modello di allevamento degli animali più accettabile per l’opinione pubblica, ma anche sicuramente più efficiente, fosse un fatto dapprima culturale e poi tecnico, che richiederebbe al pari del Piano Agricolo Nazionale del 1977 una regia governativa.
Oggi spesso la politica ritiene che il suo dovere si esaurisca semplicemente nel facilitare l’erogazione di fondi nazionale o europei all’agricoltura, mentre quello che serve ora, oltre ai sempre ben accetti “ristori”, è un’azione di coordinamento e di progettualità per adattare il sistema agricolo e zootecnico italiano al mondo che inevitabilmente e da sempre cambia.
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