Da molti anni ormai si utilizza la determinazione dell’urea nel latte di massa come indicatore generico di una corretta alimentazione, e soprattutto di rischio per la fertilità. Esiste un’unanime convinzione che meno urea c’è nel latte di massa, maggiore sarà la fertilità di quell’allevamento. Questa certezza ha condizionato la formulazioni delle diete destinate alle vacche da latte, al punto che l’urea nel latte di massa si è sensibilmente ridotta. Dai dati pubblicati dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna si può notare come nei 1.663.000 di campioni di latte analizzati per l’urea di massa si sia ottenuto un valore medio compreso tra 21 e 22 mg/dl, contro quello del 1999 di circa 26 mg/dl. Questa progressiva riduzione è stata anche confermata dalla media dei campioni individuali d’urea analizzati da AIA nel corso dei controlli funzionali su tutto il territorio nazionale. Seguendo “acriticamente” le indicazioni derivanti da una, a volte superficiale, lettura dei risultati della ricerca, sembrerebbe che uno dei fattori di rischio più importanti per le performance riproduttive della vacca da latte sia stato definitivamente rimosso. Questa considerazione si scontra però con il costatare che la fertilità bovina, e non solo della Frisona, sta inesorabilmente diminuendo in Italia, per l’allungamento dell’intervallo parto-concepimento, per la percentuale di successo di tutte le fecondazioni e per l’elevato tasso di rimonta per infertilità di ancora non facile misurazione in Italia. È bene pertanto ricordare cos’è l’urea che ritroviamo nel sangue e nel latte e da cosa deriva.

Esiste una proporzione tra ammoniaca ematica e urea, anche se ciò dipende dalla capacità del fegato di sintetizzarla. Potrebbe succedere appunto di avere un’urea bassa o normale a fronte di una concentrazione ematica di ammoniaca molto elevata. L’urea è il prodotto della condensazione di una molecola di ammoniaca (NH3) con una di CO2 e una di acido aspartico, che cede l’altra molecola di NH3. Questa reazione comporta la spesa di 3 moli di ATP e 4 legami ad alta energia. Tutto questo avviene nella cellula epatica, in parte nel citoplasma ed in parte mitocondrio. Questa reazione necessita di arginina che, ad opera dell’arginasi, è scissa in urea e ornitina. L’ornitina entra nel mitocondrio e viene condensata, con l’aggiunta di carmbamilfosfato, a formare la citrullina, e quindi incorporando il primo residuo di ammoniaca. La citrullina, uscita dal mitocondrio, riceve un altro gruppo di NH3 dall’aspartato, e in due passaggi ritorna all’arginina. In letteratura si trova spesso espresso il concetto di urea nel sangue come azoto ureico. Troviamo di frequente BUN (azoto ureico nel sangue) o MUN (azoto ureico nel latte). Per convertire il dato azoto ureico in urea è necessario moltiplicare il valore per 2.144, ossia mettere in relazione il peso molecolare dell’urea con quello dell’azoto.

Vediamo alcuni esempi. Per ottenere la concentrazione d’urea dalla MUN (mg/100ml) è necessario moltiplicare il valore per 2.144 e per fare il reciproco per 6.010; oppure per 0.355 se si desidera misurare MUN e urea in mmol/l con un reciproco per 0.166. L’urea viene in parte eliminata con le urine ma una buona parte, attraverso la saliva, viene riportata nel rumine. Questo importante meccanismo fisiologico costituisce il così detto ciclo dell’urea. Il surplus d’azoto ruminale è prevalentemente sotto forma d’ammoniaca, molecola estremamente tossica per la bovina. Attraverso le pareti ruminali ed il sangue portale, l’ammoniaca viene trasformata nel fegato in urea, molecola molto meno tossica e pericolosa. Parte di questa urea viene eliminata nel latte e nelle urine, ma una rilevante quantità viene riportata nel rumine, per un suo utilizzo, attraverso la saliva. Si stima che il 50-70% dell’azoto ingerito sia trasformato in urea. La proporzione di azoto ingerito che ritorna nel rumine come azoto ureico è del 30-45%. L’ammoniaca che nel fegato viene trasformata in urea proviene essenzialmente dal rumine. Una quota non marginale di urea, soprattutto nei momenti di grave deficit energetico, è rappresentata da quella proveniente dal catabolismo degli aminoacidi glicogenetici a livello epatico. In condizioni di riduzione della disponibilità di glucosio, come possono essere l’elevato fabbisogno per la lattazione oppure la scarsa produzione per un’alimentazione insufficiente, si osserva una riduzione della concentrazione d’insulina ematica ed un innalzamento di glucagone. Questi ormoni stimolano sensibilmente l’utilizzazione gluconeogenetica degli aminoacidi come la glicina, la glutamina l’arginina, l’aspartina, la treonina e la serina. Per regolare la liberazione di aminoacidi (proteine labili) presenti a livello muscolare, è necessario il supporto di ormoni surrenalici, come il cortisolo, e di catecolamine, come l’adrenalina e la noradrenalina. Il fegato normalizza la disponibilità degli aminoacidi per i tessuti periferici poiché estrae dal plasma la quota in eccesso e sintetizza quelli non essenziali. Ad esempio, l’acido glutammico è presente nel sangue portale in quantità modesta. Il fegato trasforma l’alanina e la glutamina in acido glutammico, inserendo l’azoto in eccesso nel ciclo dell’urea. Una parte degli aminoacidi non essenziali è deaminata per la gluconeogenesi.

La quota di ammoniaca di provenienza ruminale è rilevante e proporzionale. Essa viene liberata durante le fermentazioni degli alimenti a livello ruminale da parte della biomassa. Dal 15 al 50% dell’ammoniaca totale è assorbita attraverso la parete ruminale. Gli ioni ammonio sono assorbiti con velocità più ridotta. La ripartizione nel rumine dell’ammoniaca nella forma ionizzata e non ionizzata dipende dal pH ruminale: tra pH compresi tra il 6.00 ed il 7.00 è quasi completamente presente la forma ionizzata. L’estrema diffusibilità dell’urea nei fluidi organici mette in equilibrio, molto rapidamente, la sua concentrazione con quella del latte.

Tra i fattori che condizionano la concentrazione d’urea nel sangue c’è l’alimentazione, ovvero sia la concentrazione proteica, che il tipo di proteine presenti e la disponibilità e degradabilità dei carboidrati, sia strutturali che non strutturali. La concentrazione di proteina indegradabile poco influenza la concentrazione di urea ematica, se non per il fatto di concorrere alla concentrazione di aminoacidi a livello ematico disponibili per deaminazione epatica. La quota invece degradabile a livello ruminale (solubile e DIP) è per sua natura preferenzialmente utilizzata dalla flora ruminale, e pertanto da essa degradata ad aminoacidi ed ammoniaca. Per eccessivo apporto di proteina rumino-degradabile, per scarsa degradabilità ruminale dei carboidrati o per pH ruminali molto bassi, e quindi poco favorevoli alla flora cellulosolitica, si può liberare una quantità di ammoniaca nel rumine in eccesso rispetto alla capacità dei microrganismi ruminali di utilizzarla. È noto che nelle condizioni di acidosi ruminale ed in presenza di razione corrette dal punto di vista dell’apporto di DIP si possa ottenere un rialzo della concentrazione di urea ematica. Comunque, esiste una forte correlazione (R² = 0.920), secondo Huftaner (2008), tra MUN e proteina della razione. Esiste anche una relazione lineare tra MUN e proteina della razione espressa come concentrazione (R² = 0.84). Roseler (1993) propose un’equazione di stima per l’urea del sangue in base alla concentrazione di proteina (DIP e RUP) ed energia (enl) con un’affidabilità interessante (R² = 0.67).

BUN (mg/100 ml)= 10.7 + 0.016 x DIP (grammi ) + 0.0256 x RUP (grammi) – 1.26 x Mcal

Altre equazioni di stima sono ad esempio: Proteina grezza della razione (% s.s.) = 0.27 x MUN + 13.7 (Broderick e Clayton 1997); Proteina grezza della razione (% s.s.) = 0.45 x MUN + 10.0 (Nousianen 2004). P. Huhtanen, in un intervento alla Cornell nutrition Conference del 2007, conferma la relazione tra concentrazione proteica della razione e MUN, ma ricordando la differenza nei risultati a seconda del metodo analitico. Nei tanti lavori scientifici pubblicati il metodo maggiormente utilizzato è quello colorimetrico, mentre quello utilizzato su vasta scala dei laboratori sia pubblici che privati è quello automatico all’infrarosso (IR). Diete al 16.5% di proteine danno un livello di MUN che per il metodo con l’ureasi è di 9, per il colorimetrico 11 e per l’IR 12; tutti i valori espressi come mg/100ml. I tempi ed i modi di somministrazione degli alimenti influenzano ovviamente la concentrazione d’urea. Con la tecnica unifeed le variazioni giornaliere sono molto modeste. Più i concentrati sono somministrati in meno pasti giornalieri, maggiore sarà l’influenza del momento del prelievo sulla concentrazione d’urea del sangue o del latte. Il picco nella concentrazione d’ammoniaca ruminale è 1-2 ore dopo i pasti. Il picco ruminale è seguito dal picco di quella ematica (BUN) 2-3 ore più tardi, e quello nel latte (MUN) 1-2 ore dopo. Una grande influenza sui valori d’urea nei fluidi corporei è determinata dallo stadio di lattazione. L’urea è più bassa nelle prime settimane di lattazione, per aumentare al picco produttivo a causa della maggiore ingestione di sostanza secca e diminuire di nuovo con l’aumentare dei giorni di lattazione. Il potenziale genetico, in teoria, dovrebbe, a parità di concentrazioni energetiche e proteiche della razione, essere negativamente correlato con l’urea, a causa di un miglioramento dell’efficienza nella trasformazione dell’azoto ingerito con la sintesi della caseina del latte nelle bovine più selezionate. Vale tuttavia la pena di considerare che le bovine di alto potenziale genetico, proprio in virtù della capacità che posseggono di mettere a disposizione della mammella la maggiore quantità di risorse, hanno la tendenza ad avere una concentrazione d’insulina più bassa, e sono quindi più inclini al catabolismo che all’anabolismo, compreso quello delle proteine, o meglio degli aminoacidi. Quando si valuta la concentrazione individuale di urea e proteina del latte si deve tenere conto della presenza di malattie concomitanti. La determinazione dell’urea ematica fa parte delle prove di funzionalità epatica per la vacca da latte. Concentrazioni troppo basse di questa molecola, a fronte di diete corrette, fanno sospettare una sofferenza epatica della bovine. La lipidosi epatica, cioè un eccessivo accumulo di trigliceridi nelle cellule epatiche, riduce la capacità di sintesi dell’urea, e quindi di riduzione della concentrazione ematica di ammoniaca. Secondo studi effettuati da B.D.Strang (1998), la riduzione della ureagenesi negli epatociti è correlata positivamente con la concentrazione dei trigliceridi epatici. Comunque, tutte le malattie che causano indirettamente un bilancio energetico negativo causano il ricorso alle proteine labili, amplificando la deaminazione degli aminoacidi. La sola patologia ruminale che potrebbe causare l’incremento di urea è l’acidosi ruminale, causa di una ridotta presenza di batteri cellulosolitici, utilizzatori preferenziali di ammoniaca ruminale. Abbiamo visto come la sintesi dell’urea a livello epatico sottrae risorse energetiche alla bovina.

La sintesi dell’urea richiede molta energia. Per sintetizzare una mole d’urea sono necessarie tre molecole di ATP. Secondo molti autori, come Buttler 1998, un’eccessiva concentrazione di BUN è in grado di alterare il pH uterino e rendere l’ambiente poco favorevole alla sopravvivenza degli embrioni. Con una BUN di 0 mg\dl si ha un pH uterino di 7.20. Quando la concentrazione arriva a 20 mg\dl, il pH scende a 6.80. Oltre al alterare il pH, un eccesso di azoto ureico riduce la concentrazione di potassio, magnesio e fosforo nelle secrezioni uterine. Secondo Hammon (2005), esiste anche una correlazione tra azoto ureico plasmatico e quello contenuto nel fluido follicolare pre-ovulatorio e quello uterino. L’elevata concentrazione di BUN altera inoltre la qualità degli embrioni e la loro capacità di sopravvivere. Secondo Rhoads (2006), diete a medio (15-17%) ed elevato (21.9%) livello proteico producono embrioni con differente capacità di sopravvivere una volta trasferiti a 7 gg di vita. In uno studio di Hammon (2005), si evidenzia come un alto livello di PUN sia associato con un incremento di NH3 e azoto ureico nel fluido del follicolo preovulatorio nel giorno dell’estro e nel fluido uterino della fase luteinica.

Accertato che l’eccessiva concentrazione d’urea nel sangue può rappresentare un fattore di rischio per la fertilità, è necessario considerarne il valore normale. È innanzitutto da precisare che esiste una profonda differenza tra urea collettiva ed individuale. A determinare il valore medio di urea, ad esempio nel latte, concorrono numerosi fattori e la grande variabilità dovuta all’individualità dei singoli animali. L’urea di massa, ed un numero di determinazioni sufficientemente ampio, può dare delle generiche indicazioni relative al metabolismo proteico di un allevamento e alla sua capacità di convertire l’azoto ingerito con quello escreto come proteina del latte. Molto più riconoscibile, e quindi utilizzabile come biomarker, è la determinazione dell’urea individuale, attraverso la quale si può verificare l’adeguatezza dei piani alimentari nelle varie fasi del ciclo di lattazione, per una generica stima di funzionalità epatica e di potenziale rischio per la fertilità. Fatta questa necessaria premessa, la linea guida tutt’oggi più utilizzata per il latte di massa è quella proposta da Peyraud (1989) e pubblicata sulla rivista francese Elevage. Secondo questo autore, il livello ottimale è compreso tra 27 e 30 mg/dl. Deve essere tollerata fino ad un livello minimo di 25 mg\dl e massimo di 33 mg\dl. Valori inferiori alla soglia minima, sempre secondo l’autore, indicano una carenza d’azoto degradabile o un eccesso di carboidrati fermentescibili. Quadro opposto invece si riscontra con un valore d’urea superiore a quello massimo. Per Buttler (1996), il valore da considerare normale è compreso tra 16 e 40.6 mg/100 ml di urea; al di sopra o al di sotto di queste concentrazioni si potrebbero riscontrare concomitanti problemi di fertilità. Secondo studi condotti da Rajala-Shultz (2001) e Ferguson (1988-1993), la riduzione del tasso di concepimento sia ha con una BUN maggiore di 19 mg/dl e MUN maggiore di 15.4 mg/dl. In conclusione, sono alcuni aspetti che lasciano perplessi.

Ma è proprio vero il concetto che meno urea c’è nel sangue, e quindi nel latte, maggiore è il tasso di concepimento? Il fatto che a fronte di una media di 21.6 mg/dl nel latte individuale in realtà più del 40% delle vacche abbia un valore di urea inferiore a 20mg/dl nei primi 75 giorni di lattazione non potrebbe significare che alla base della sub-fertilità ci sia una carenza di proteina metabolizzabile o di grave sofferenza epatica? Inoltre, siccome le medie le fanno i singoli soggetti, non ci potrebbe essere qualche difetto genetico nel meccanismo di detossificazione dell’ammoniaca di qualche linea di sangue?