Nella vacca da latte la qualità dei foraggi è un “prerequisito” per valorizzare appieno il potenziale genetico produttivo e garantire alle bovine un adeguato stato di salute per essere più longeve possibile. Molte sono state le ricerche effettuate per quantificare gli effetti della digeribilità dei foraggi e fino a quanto essi possano essere sostituiti con i concentrati.

Nella bovina, in qualità di ruminante, la distinzione tra fibra proveniente dai foraggi e fibra proveniente dai concentrati non è legata a classificazioni merceologiche o botaniche ma alle dimensioni delle particelle, o meglio alla loro granulometria.

Nel 1997 Mertens introdusse il concetto di “physically effective NDF” (peNDF), con cui ci si riferisce a quella frazione della fibra che stimola la ruminazione, e quindi un adeguato flusso di saliva nel rumine. Sappiamo che un elevato flusso di saliva, e del fosfato e carbonati in essa contenuti, sono il principale sistema di stabilizzazione del pH ruminale per evitare stati di acidosi ruminale dovuti alla necessità di fermentare amidi in acido propionico, creando energia per l’animale. In sostanza il peNDF è tutta quella parte di NDF, ossia di fibra, più “lunga” di 1.18 mm. Pertanto, per la bovina è fibra da foraggio, e quindi entra nel ciclo della ruminazione, tutto quell’NDF più lungo di 1.18 millimetri.

Tuttavia, nella pratica d’allevamento, se le razioni sono gestite come unifeed è bene prendere delle cautele in più per garantire un’adeguata produzione di saliva. È bene che nella razione ci siano almeno il 10% di particelle più lunghe di 2 cm e almeno dal 30 al 50% di particelle più lunghe di 0.8 cm. In ogni caso, la sostituzione di fibra da foraggio con quella da concentrato, pur garantendo una migliore digeribilità della stessa, per molti mesi all’anno risulta anti-economica. Tipiche fonti di fibra da concentrati reperibili in Italia sono le polpe di barbabietola, le buccette di soia e la crusca di grano, i cui prezzi spesso sono nettamente superiori ai foraggi. La migliore soluzione, dove non esistono specifici divieti d’impiego come per la produzione del Parmigiano Reggiano, è il ricorso ai foraggi insilati.

L’insilamento è una tecnica di conservazione dei foraggi che si realizza per l’acidificazione della massa ad opera di microrganismi anaerobi che producono acido lattico creando una condizione ambientale sfavorevole a quelli che invece deteriorerebbero il foraggio così conservato. L’insilamento è una tecnica molto antica che pare risalga al 1500 A.C.. Insilare foraggi come la pianta del mais, dei cerali autunno vernini e di graminacee come la loiessa o le leguminose, presenta indubbi vantaggi tecnici ed economici. L’insilamento di un foraggio, specialmente se diretto, ossia raccolto con una trincia per evitare il parziale asciugamento in campo, è un operazione molto rapida ed economica, priva di particolari rischi. Ovviamente l’insilamento diretto si può fare con piante che al momento dell’insilamento raggiungono naturalmente la sostanza secca per farlo, che normalmente oscilla tra il 26 e il 38%. Leguminose come l’erba medica e graminacee come la loiessa arrivano al momento della raccolta con un’umidità troppo elevata, per cui richiedono una parziale disidratazione in campo. Questo ulteriore passaggio è fondamentale per la concentrazione degli zuccheri che verranno utilizzati dai batteri lattici per produrre acido lattico, molecola che garantisce la conservabilità ottimale per un insilato. La produzione di foraggi essiccati (fieno) è anch’essa un buon modo di conservazione ma richiede l’allestimento di cantieri operativi più complessi e quindi costosi, oltre ad avere dei rischi più elevati. Per produrre fieno naturalmente, ossia senza l’uso degli essiccatoi, l’erba deve rimane al sole diversi giorni, e questo la può esporre al rischio delle piogge tipiche del periodo maggio-giugno. Inoltre, la manipolazione del fieno in campo per garantire a tutta la massa un’essiccazione omogenea può arricchire il foraggio di terra, e con essa di batteri sporigeni pericolosi come i clostridi.

Esiste un vantaggio nutrizionale nell’uso dei foraggi insilati in luogo di quelli essiccati. La fermentazione, e in particolare quella ruminale, è un processo che può avvenire solo su materiale umido. Un foraggio secco, prima di essere fermentato, deve essere imbibito di acqua nel rumine e ripetutamente ruminato per consentire la fermentazione e per aumentare la superficie d’attacco dei batteri fibrolitici. Questi passaggi sprecano quel tempo prezioso che il rumine ha a disposizione per produrre biomassa batterica e acidi grassi volatili nella massima quantità. In sostanza, nelle 24 ore, a parità di sostanza secca, è maggiore la produzione di biomassa e acidi grassi dagli insilati rispetto ai foraggi secchi.

Queste considerazioni vanno ovviamente in deroga quando si parla della pianta del mais. Questa infatti, per sua natura, non è essiccabile naturalmente ed è quindi praticamente solo insilabile. I molti anni di selezione per sviluppare piante che sincronizzano il grado di maturazione della granella con quello ottimale della pianta (sostanza secca e zuccheri) rendeno il mais il “re” dei foraggi, cioè quello che meglio coniuga la massima produzione per ettaro di un foraggio ad elevata digeribilità contenente una significativa quota di amido di elevata qualità perché da mais. L’unico fattore che può rendere non conveniente l’uso dell’insilato di mais è la mancanza o il costo delle risorse idriche. Possiamo dire che se neanche l’irrigazione a goccia può consentire la produzione economicamente sostenibile del mais, è bene valutare la totale alternativa con cerali autunno vernini o altre foraggere. È impensabile immaginare che un insilato di grano o triticale possa avere lo stesso rendimento economico di un insilato di mais dove la disponibilità di risorse idriche e il loro costo sia vantaggioso.

La successiva domanda da porsi è se esiste un limite ragionevole all’uso degli insilati in una razione per vacche da latte. Se un insilato è ben conservato, non ha alterazioni, è appetibile e le particelle presenti nell’unifeed hanno un’adeguata granulometria non ci sono in teoria limiti d’impiego. Prima d’impiegare dosi elevate d’insilati è bene procedere ad un’analisi accurata in un laboratorio qualificato, concetto diverso dal “qualsiasi laboratorio”. Oltre alle analisi di rito di quantificazione dei nutrienti principali, vanno accuratamente dosati gli acidi grassi volatili principali come l’acido lattico, l’acido acetico e l’acido butirrico, valutando i valori sulla sostanza secca. Un buon insilato ha una concentrazione di acido lattico superiore al 4% e quella dell’acido acetico preferibilmente inferiore all’1.5%. Gli altri acidi devono essere assenti o presente in tracce. Più l’acido lattico è elevato maggiore è la salute e la stabilità dell’insilato. Un’elevata percentuale di acido acetico è espressione di fermentazioni anomale e la sua presenza ne può ridurre l’appetibilità. E’ considerato ottimale un rapporto acido lattico/acido acetico di 3:1. Va inoltre verificato che il pH sia inferiore a 3.80 e che la temperatura del fronte della trincea sia fredda al tatto. Per decidere il limite d’impiego è bene controllare la concentrazione di nitrati e il livello delle micotossine presenti. La fase successiva è quella della valutazione della concentrazione della fibra effettiva, ossia della quantità di peNDF. Alcuni laboratori eseguono quest’analisi, che non è indispensabile se si utilizzano non più di 27 kg d’insilato per capo. In genere, nell’insilato di mais il peNDF è l’80% dell’NDF. Disponendo di un setaccio è bene verificare la granulometria dell’insilato dopo il desilamento e dopo la miscelazione con il carro unifeed, assicurandosi che ci siano almeno il 3-5% di particelle con un lunghezza > 1.9 centimetri e il 45-65% superiori a 0.9 centimetri. Dopo queste verifiche è bene “chiedere un parere” alle vacche sottoponendo l’insilato ad una prova d’ingestione spontanea, ossia non miscelandolo con altri alimenti e presentandolo in mangiatoia preferibilmente a vacche in asciutta. Se tutto questo percorso diagnostico ha dato esisto positivo, si può valutare se utilizzare insilati in grandi quantità, ossia più di 30 kg al giorno, siano essi solo di mais o associati con altri insilati.

Ovviamente, le razioni alimentari vanno adeguate a questo, in considerazione del fatto che la maggiore digeribilità di questi foraggi può causare sensibili riduzioni del pH operativo del rumine, prevedibili e quantificabili, e quindi va previsto un rafforzamento dei sistemi tampone ruminali. In razioni con elevata quantità d’insilato, specialmente se di mais, si introduce solitamente la paglia di adeguata granulometria. Questo alimento non ha alcun valore nutritivo ma ha la sola funzione meccanica di stimolare la produzione di un’abbondante quantità di saliva e quindi l’afflusso di bicarbonato, fosfati e azoto ureico nel rumine. E’ bene limitare a 500 gr l’uso della paglia, per non ingombrare inutilmente il rumine di materiale indigeribile e vanificare di fatto il vantaggio offerto dall’uso di foraggi più digeribili come lo sono in genere gli insilati. Per rafforzare comunque il sistema tampone del rumine, si aggiunge una quota supplementare di bicarbonato di sodio, di ossido di magnesio ed eventualmente di carbonato di potassio.

Conclusioni

L’uso di razioni ad alta concentrazione d’insilati è non solo fattibile ma anche auspicabile, a patto che si esegua un adeguato percorso analitico e che in fase di razionamento si modifichino gli apporti di tampone e proteina solubile. Tutto ciò non esonera però dal verificare sugli animali gli effetti di queste scelte alimentari. E’ infatti necessario monitorare costantemente l’ingestione di sostanza secca, prendendo rapidi provvedimenti qualora essa scenda al di sotto della soglia normale per l’allevamento considerato e per quella stagione. Inoltre, va monitorata la concentrazione di grasso e proteina del latte, allarmandosi non tanto per i cali del latte quanto per i repentini e ingiustificati aumenti di proteina del latte, e quindi per l’alterazione del rapporto proteina/grasso che nella frisona italiana è fisiologicamente 0.9. Grande attenzione va posta, inoltre, nella valutazione della qualità delle feci, e quindi nella verifica della presenza di materiale indigerito, o peggio del muco, nell’output fecale, ad espressione di un’acidosi intestinale.