Siamo certamente tutti convinti che la qualità di un prodotto sia un elemento distintivo ed estremamente interessante da valorizzare all’interno di una filiera produttiva o di trasformazione. E certamente ognuno è persuaso di essere sensibile a questo concetto e di sviluppare il massimo possibile in questa direzione. E, all’interno di ogni azienda, è verosimile che sia davvero così.

E’ tuttavia solo confrontando realtà diverse che, alla parola qualità, si abbina una scala di valori che rende evidenti le differenze. Già, poiché non esiste una qualità assoluta. La qualità è sempre in relazione con un’altra qualità. Il 4% di grasso può essere tanto o poco: dipende da qual è il confronto.

Un’erba medica con il 18% di proteine può essere di alta qualità, e certamente lo è rispetto ad una con il 15%. Se tuttavia la confrontiamo con una oltre il 20%, la valutazione della qualità si ridimensiona.

Il problema sta dunque esattamente nel confronto.

All’interno di questo confronto, aggiungo che sarebbe utile dare un valore alla variabilità della qualità. Già perché, molto spesso, perseguire una migliore qualità può generare costi aggiuntivi.

A titolo di esempio, la variabilità del valore della qualità latte, in termini di premi, pur all’interno di un identico schema di pagamento, può superare i 2 centesimi per litro di latte consegnato. La differenza potrebbe essere molto più significativa se prendessimo in esame gli estremi. La differenza citata è invece tra aziende che lavorano su interessanti livelli di gestione e di managerialità.

La piovosità primaverile che ha caratterizzato la prima parte dei raccolti foraggeri di questa annata, non mancherà di far sentire il suo effetto, se già non lo sentiamo, sulla qualità dei fieni in razione, sulla digeribilità degli stessi e dell’intera razione e sull’insieme delle performances degli animali e della mandria. A parità di piovosità, possiamo tuttavia riscontrare un’estrema variabilità nella qualità dei prodotti stoccati dalle diverse aziende in trincea o nei fienili. Significa che alcune aziende più reattive sono state più capaci di altre ad  adattarsi alle condizioni climatiche al fine di poter stoccare foraggi di qualità relativamente migliore. Calcolare l’impatto economico di questa differenza di qualità è impresa ardua ed altamente opinabile. La variabilità di questo impatto, tra maggiori costi e minori ricavi, escludendo ancora gli estremi,  credo possa essere stimata con una forbice almeno simile a quanto sopra accennato per la qualità del latte.

Ho citato solo due esempi, potendone proporre altri, per evidenziare come, pur essendo ciascuna azienda certamente orientata verso la qualità, esistano ampie differenze nella realtà che, da sole, sono in grado di spiegare una buon parte delle differenze di risultati economici tra le aziende.

Solo un confronto attento tra le aziende – quelli bravi lo chiamano Benchmark – può dare la misura del livello economico di impatto della qualità, offrendo a ciascuno la misura di quanta strada abbia ancora la possibilità di percorrere.