La gestione dei ruminanti, e specialmente di quelli allevati per la produzione di latte, è generalmente molto complessa, non tanto per gli aspetti produttivi quanto per la fertilità. Molte delle conoscenze che provengono dai monogastrici, uomo compreso, non sono utilizzabili nei ruminanti, e in molti casi possono essere altamente fuorvianti. Spesso si rappresentano aspetti anatomici, fisiologici e metabolici di questi animali più in forma allegorica che reale. Esempi di ciò sono il rumine, la produzione di energia e la fertilità. In sede didattica e semplificativa, il rumine viene immaginato come un grande acquario marino, perché è salato, dove nuota un grande numero di batteri, archaea, protozoi e funghi che si nutrono del cibo che il ruminante ingerisce. La realtà è però molto diversa da questa semplificazione planctonica. All’interno del rumine i microrganismi, o meglio il microbiota, è per lo più organizzato in biofilm all’interno dei quali, oltre ad esserci competizione tra i diversi microrganismi, c’è una complessa interazione e sinergia.

Questa grande differenza tra realtà e rappresentazione crea confusione e fa rischiare scelte anche pericolose quando si deve redigere una dieta o valutare gli additivi. Una qualsiasi modifica, anche blanda, di un piano alimentare, richiede diverse settimane per riuscire a modificare la quantità di proteina metabolizzabile di origine ruminale e i rapporti tra i vari acidi grassi volatili proprio in virtù dei biofilm ruminali. Una scarsa conoscenza della fisiologia ruminale porta a promettere sostanziali cambiamenti nella produzione, nella qualità del latte e nella fertilità, magari anche solo pochissimi giorni dopo l’inizio dell’utilizzo di una nuova razione. Questo problema si verifica spesso nella gestione della riproduzione, o meglio delle sue patologie. La qualità del follicolo ovarico, del corpo luteo e dell’ovocita sono aspetti condizionati da innumerevoli fattori che agiscono nel breve, medio e lungo periodo. Lo stesso discorso si può fare per gli ormoni steroidei, le gonadotropine ipofisarie e l’IGFs.

L’asse ipotalamo-ipofisario registra in modo continuo gli assetti ormonali e metabolici dell’organismo approntando i dovuti correttivi. L’erronea conoscenza della fisiologia dei ruminanti è paradossalmente una delle prime cause dell’infertilità, specialmente quando si vogliono legare in un rapporto causa-effetto di breve periodo l’energia della razione e la riproduzione. Queste contraddizioni sono particolarmente evidenti nella bovina da latte e soprattutto nelle razze altamente produttive come la frisona, dove il bilancio energetico negativo è di fatto fisiologico iniziando già durante gli ultimi giorni di gravidanza per estendersi ai primissimi mesi di lattazione. Per avere un numero ridotto di giorni medi lattazione si vorrebbero ringravidare le bovine non molto tempo oltre i 100 giorni medi di lattazione, e quindi a ridosso del picco di lattazione che ormai nella frisona si è spostato a quasi 90 gg dal parto. Spesso, senza utilizzare criteri statistici ed epidemiologici, o la visura delle cartelle cliniche della singola bovina, si attribuiscono ad una generica carenza energetica le basse percentuali di bovine gravide trovate durante una sessione di diagnosi di gravidanza o gli elevati ritrovamenti di cisti ovariche. Questa semplificazione stimola la maggior parte delle volte una variazione della dieta al fine di aumentarne la concentrazione energetica, e questo ha in genere nel medio periodo un effetto sommativo, ossia ci si sposta da razioni con un alto margine di sicurezza ad altre rischiose per le ragioni che approfondiremo successivamente. In considerazione del fatto che le bovine vengono alimentate a volontà per assecondare la richiesta di una dieta maggiormente energetica, l’alimentarista, e a volte anche il nutrizionista, deve fare spazio nella razione ad amido e grassi, e per fare questo deve inevitabilmente ridurre fibre e proteine.

Questo approccio empirico è molto diffuso in Italia e nasce dall’osservazione che un aumento della concentrazione di amido anche fino al 30% e una riduzione delle proteine anche al di sotto del 15% danno benefici immediati sia alla produzione che alla fertilità, per cui si trae l’evidente conclusione che sono questi i fabbisogni ideali della bovina da latte. Con il passare del tempo questa certezza empirica comincia però a vacillare perché in stalla insorgono problemi tutti riconducibili all’acidosi ruminale subclinica (SARA) ad andamento cronico.

Ma perché inizialmente le cose vanno così bene?

Una sostituzione di parte della quota di fibra effettiva (peNDF e NDF da foraggio) con amido riduce la masticazione ruminale, la produzione di saliva e quindi l’apporto di tamponi al rumine. Questo causa una riduzione del pH ruminale che, unita ad una maggiore disponibilità di amido, crea una condizione ideale per una maggiore crescita di batteri che fermentano l’amido e che notoriamente producono grandi quantità di propionato. Questo acido grasso volatile è il maggiore e più importante precursore del glucosio epatico e quindi d’energia (ATP). Questa “accelerazione” delle fermentazioni ruminali fa anche aumentare il tasso di crescita del microbiota ruminale, e quindi il flusso di proteina metabolizzabile di origine microbica all’intestino tenue. Questa maggiore disponibilità di aminoacidi, sia essenziali che non essenziali, migliora la concentrazione proteica del latte e fornisce un ulteriore contributo alla produzione d’energia. Se poi alla razione si aggiungono acidi grassi saturi rumino-protetti, i benefici sulla produzione e sulla qualità del latte saranno ancora più evidenti.

Pur tuttavia, una conoscenza delle peculiarità fisiologiche e metaboliche dei ruminanti, e della loro profonda differenza con quelle dei monogastrici, sconsiglia di fare queste scelte, soprattutto se “estreme”, senza attivare i dovuti meccanismi di controllo della salute e degli animali.

La domanda da porsi è: l’aumento della concentrazione energetica della razione e l’aumento della quantità di glucosio prodotto porteranno i benefici alla fertilità attesi senza effetti collaterali?

I ruminanti sono animali che si sono evoluti per la loro grande abilità di valorizzare le fibre indigeribili per i monogastrici (cellulose) e l’azoto non proteico. L’incontro con gli amidi (cereali) e con i grassi (oleaginose) avveniva solo in alcuni ristretti periodi dell’anno. Quando si aumenta la concentrazione di amido della razione, per le ragioni prima esposte, il pH ruminale tende a scendere verso i valori tipici della SARA. Questa patologia s’instaura quando il pH del rumine scende al di sotto di 5.60 per oltre 3 ore al giorno, oppure sotto 5.80 per oltre 5-6 ore. La grande massa di AGV prodotti nel rumine viene assorbita attraverso le pareti ruminali e tramite la vena porta è trasportata nel fegato. Quando il pH scende al di sotto di 6.00, la parete interna del rumine tende ad aumentare la sua superficie al fine di assorbire, e quindi smaltire, gli AGV. Una sollecitazione prolungata, come quella che avviene quando la SARA cronicizza, causa paracheratosi e ipercheratosi dell’epitelio ruminale che, se non diagnostica e se non sono apportati i dovuti correttivi, accompagna gli animali verso l’acidosi ruminale clinica.

L’epitelio ruminale è di tipo squamoso stratificato e quando è “sano” assorbe in maniera ottimale sia gli AGV che gli elettroliti, mentre respinge i microrganismi e tossine come i lipopolisaccaridi (LPS) e le amine biogene (BA). Quando il pH ruminale scende sotto i limiti fisiologici, si verifica la morte di moltissimi batteri fibrolitici che sono generalmente gram negativi, come il Fibrobacter succinogenes e il Butyrivibro fibrosolvens. Dai gram negativi ruminali si liberano grandi quantità di LPS e amine biogene come l’istamina e l’etanolammina. Questi due gruppi di molecole causano, sia a livello locale che sistemico, fenomeni infiammatori, e il loro ingresso nel sistema circolatorio viene interpretato dal sistema immunitario innato come un segnale di una infezione batterica sistemica, e pertanto come stimolo ad attivare una risposta immunitaria generica ma estesa e poi specifica.

I LPS assorbiti dal tratto gastro-intestinale tramite la vena porta e la circolazione linfatica entrano in contatto con i macrofagi dei linfonodi e con quelli (cellule del Kupffer) presenti nel fegato. I macrofagi così attivati immettono in circolo citochine pro-infiammatorie come IL-1, IL-6 e TNF-α. Conseguentemente a ciò si attiva una risposta di fase acuta di basso grado (APR) e quindi la sovraregolazione dei geni che sovraintendono la produzione di proteine sieriche della fase acuta come l’aptoglobina, il siero amiloide A (SAA) e la proteina legante i lipopolisaccaridi (LBP). La presenza di LPS causa direttamente un innalzamento di corticosteroidi e una riduzione dell’ormone LH direttamente sull’ipofisi. Il TNF-α di derivazione macrofagocitaria stimola a livello epatico la produzione delle proteine della fase acuta, e induce insulino-resistenza, ridotta gluconeogenesi e accumulo di trigliceridi. La metabolomica ci ha permesso di apprezzare che nelle vacche con SARA si ha a livello ematico una maggiore concentrazione di LBP e di amine biogene come l’istamina, l’etanolammina, l’isopropilamina, la pirrolidina, la putresceina, la cadaverina e la spermidina. Inoltre, sempre grazie alla metabolomica, si è notato che con la SARA si riduce la concentrazione di amminoacidi come l’arginina, la citrullina, l’isoleucina, la metionina, la fenilalanina, il triptofano e la tirosina. A livello ipotalamico induce invece febbre e riduzione dell’appetito.

In buona sostanza, la diretta presenza di LPS nel sangue e delle citochine pro-infiammatorie stimola uno stato generale d’infiammazione e una maggiore disponibilità di glucosio e acidi grassi, al fine di supportare adeguatamente un’efficace difesa immunitaria contro la presunta infezione che sta accumulando nell’organismo endotossine e amine biogene. In questo caso la fisiologia comparata è stata utile a capire questa complessa cascata di eventi metabolici. La sindrome metabolica, che si stima colpisca il 25-35% della popolazione italiana, è un complesso di condizioni come la dislipidemia, l’ipertensione, l’insulino-resistenza e le patologie cardiovascolari.

Nell’uomo le principali cause predisponenti sono la vita sedentaria e il grasso addominale, oltre ovviamente ad una predisposizione genetica. Spesso i soggetti di sesso femminile si accorgono di avere questa sindrome dal ginecologo in seguito alla diagnosi della sindrome dell’ovaio policistico. Il tessuto adiposo, specialmente quello viscerale, libera grandi quantità di citochine pro-infiammatorie che sono probabilmente la vera causa diretta della sindrome metabolica. L’ipertensione e le malattie cardiovascolari è rarissimo che si evidenzino nelle bovine da latte, mentre l’insulino-resistenza, o diabete di tipo 2, è un “assetto metabolico” premiato dalla selezione genetica al fine di aumentare la disponibilità di glucosio (iperglicemia) e acidi grassi (iperlipidemia) alla mammella, e quindi per la produzione di latte. Chi alleva e assiste le vacche ben conosce l’insulino-resistenza che accompagna “fisiologicamente” le bovine nella fase di transizione. Tornado ai LPS, l’attivazione dell’APR è essenziale per eliminare i patogeni ma questo comporta un aggravamento del fabbisogno energetico con un peggioramento del NEBAL.

Nelle bovine di alto potenziale genetico, pertanto, le diete ad alta concentrazione di amido e ridotto apporto proteico possono dare indubbi vantaggi produttivi di breve periodo ma, se utilizzate per migliorare la fertilità, il rischio di essere loro stesse causa d’infertilità è molto elevato.

Questo tipo di bovine, quando si trovano in lattazione e non sono ancora gravide, considera la riproduzione come una funzione metabolica non prioritaria e pertanto sospendibile. Uno stato infiammatorio sistemico e protratto nel tempo, causato da un’elevata traslocazione di endotossine e amine biogene dal rumine, induce un riassetto metabolico e ormonale che non influenza negativamente, anzi la migliora, la produzione di latte, grasso e caseina mentre “blocca” reversibilmente la riproduzione. Pertanto, la ricerca di diete ad alta concentrazione energetica finalizzate a mitigare il NEBAL tipico delle prime settimane di lattazione può essere la causa di un allungamento dell’intervallo tra il parto e il concepimento e una generale cattiva qualità del follicolo ovarico, del corpo luteo, dell’ovocita e dell’embrione. Succede spesso che diete a moderata concentrazione sia di concentrati che di amido, e quindi a ridotta concentrazione energetica, ma con fibre sia da foraggio che da concentrati di elevata quantità (come quelle prescritte da disciplinari come quello del Parmigiano Reggiano), non peggiorino le prestazioni riproduttive delle bovine.

Ovvio è che il confronto tra performance riproduttive di razze e regioni diverse deve essere fatto al netto dell’utilizzo delle sincronizzazioni ormonali sistematiche.