Nel paniere degli alimenti utilizzabili nell’alimentazione dei ruminanti ci sono anche i semi di lino. Più che come alimenti di base vengono classificati tra gli alimenti funzionali, ossia apportatori di nutrienti utili alla salute e alla fertilità. Nella nutrizione umana i semi di lino vengono anche classificati come superfood.

Di Linum usitatissimum, questo è il nome latino del lino, ne esistono molte varietà per cui ci può essere una discreta variabilità nella loro composizione analitica. Comunque i semi di lino integrali hanno, sulla sostanza secca, circa il 25% di proteine e il 35-36% di gassi, di cui oltre il 50% sono rappresentati dall’ALA, ossia l’acido α-linolenico (C18: 3 n-3), il più noto tra gli acidi grassi polinsaturi a lunga catena (PUFA) omega-3 (n-3). Pertanto, i semi di lino integrali hanno una concentrazione di ALA del 19%. I semi di lino contengono un glucoside cianogenetico che, per azione di alcuni enzimi intestinali, può dar luogo alla produzione di acido cianidrico. Questa molecola tossica è termolabile, per cui prima di utilizzarli nell’alimentazione sia umana che animale è necessario eseguire un trattamento termico. I trattamenti industriali più utilizzati sono la micronizzazione (115° per 90”) e l’estrusione (155° per 43”) applicata ai semi di lino integrale macinati.

Come è noto, nell’alimentazione dei ruminanti, specialmente se da latte, non si utilizzano, né per ragioni energetiche e neppure nutraceutiche, gli oli liberi come quello di mais, soia, colza e girasole in quanto tossici per il microbioma ruminale e perché agenti eziologici della “Sindrome da basso grasso del latte”. Quest’ultima condizione è dovuta al fatto che a causa dell’azione di enzimi tipo isomerasi e della bioidrogenazione ruminale dei doppi legami, cosa che accade tipicamente agli acidi grassi insaturi presenti in molti alimenti zootecnici e nei foraggi, si sviluppano isomeri che, una volta giunti nella mammella, possono ridurre la concentrazione di grasso nel latte. Il processo di isomerizzazione e di bioidrogenazione ruminale è piuttosto intenso e rapido, soprattutto negli animali in lattazione alimentati con grandi quantità di concentrati da cui deriva un pH ruminale piuttosto basso a causa della grande produzione di acidi grassi volatili. Dall’acido oleico (C18:1), l’acido linoleico (C18:2) e l’acido linolenico (C18:3) si sviluppano il trans-10 C18:1; il trans-10, cis-12 C18:2; e il trans-9, cis-11 C18-2, che sono tra i 24 isomeri conosciuti che maggiormente possono interferire nella sintesi del grasso del latte della bovina da latte. Molti di questi isomeri sono anche noti come CLA (coniugati dell’acido linoleico), molecole posto sotto una notevole attenzione per i loro effetti positivi sulla salute umana.

Nella dieta giornaliera delle bovine da latte è normalmente presente una grande quantità di acidi grassi insaturi provenienti da alimenti come il mais, il cotone e le oleaginose integrali. L’acido linoleico, molto presente in questi alimenti, è classificato come omega-6 mentre l’acido α-linoleico è il principale omega-3 potenzialmente presente nelle razioni. Ci sono altri 2 acidi grassi polinsaturi omega-3 (PUFA omega-3), ovvero il C20:5 n-3 (EPA) e il C22:6 n-3 (DHA), utili alla salute e presenti negli oli ricavati dai pesci che consumano le alghe. EPA e DHA sono sintetizzabili anche a partire dall’ALA. L’acido linoleico viene convertito nell’organismo in acido arachidonico (C20:4 n-6) che è il precursore della serie 2 delle prostaglandine (PFG), conosciute per la loro azione “infiammatoria”. L’acido α-linolenico è invece convertito dapprima in EPA e poi nella serie 3 delle prostaglandine, che hanno anche una generica azione antinfiammatoria. Questi due percorsi biochimici che portano alla sintesi delle prostaglandine della serie 2 e della serie 3 competono per gli stessi enzimi; quindi, l’aumento di concentrazione di PUFA omega 3 negli organismi ha effetti benefici derivanti dalla riduzione delle PGF. Nell’alimentazione umana si raccomanda che il rapporto n-6/n-3 sia inferiore a 4. Nelle razioni per bovine da latte sarebbe ideale un rapporto analogo ma anche fino a 6:1 per avere effetti benefici sul sistema immunitario e sulla fertilità. Gli acidi grassi omega-3 hanno un meccanismo d’azione piuttosto complesso ma facilmente intuibile. Sulla riproduzione ci possiamo aspettare, a causa di una minore produzione di PGF, una riduzione del tasso di morte embrionale precoce ma anche follicoli ovulatori più grandi. Un aumento dei PUFA n-3 negli ovociti e nel liquido follicolare ha effetti positivi sulla qualità dell’embrione.

Un aumento di concentrazione dei PUFA a scapito degli acidi grassi saturi nelle membrane dei leucociti influisce positivamente sulle funzioni immunitarie. Tutti i PUFA n-3 sottoregolano l’espressione delle molecole di adesione coinvolte nelle interazioni infiammatorie tra leucociti e cellule endoteliali. I PUFA omega-3 e i CLA hanno un interessante effetto di stimolazione sui recettori insulinici ubicati in molti tessuti (come quello epatico) e sui follicoli ovarici e gli ovociti.

Gli acidi grassi saturi a media e lunga catena come l’acido miristico (C14:0), l’acido palmitico (C16:0) e l’acido stearico (C18:0), e alcuni insaturi come l’acido palmitoleico (C16:1), l’acido γ-linolenico (C18:3 n-6), l’acido linoleico (C18:2 n-6), l’acido miristoleico (C14:1) e l’acido eptadecenoico (C17:1), sono correlati negativamente con la fertilità. Si è soliti inserire nelle diete delle bovine in lattazione non ancora gravide un supplemento di acidi grassi saturi idrogenati, saponificati o da oleaginose per mitigare il bilancio energetico negativo, sicuramente correlato con l’infertilità, ed aumentare la percentuale di grasso nel latte e la produzione. Vedendo la questione alla luce della biologia evolutiva, si potrebbe ottenere dall’uso degli acidi grassi saturi un effetto paradossale ossia, invece di avere un miglioramento della fertilità si potrebbe causare un suo peggioramento. L’inserimento degli acidi grassi saturi provoca spesso un aumento della produzione di latte e di grasso, e questa condizione peggiora il bilancio energetico degli animali. L’inserimento di acidi grassi nella dieta comporta un aumento dei NEFA circolanti per effetto sommatorio con quelli derivanti dal tessuto adiposo. Questa condizione è interpretata dall’ipotalamo della bovina come fattore negativo per prendere la “decisione di riprodursi”. Un altro effetto positivo dell’inserimento nella dieta delle bovine nella fase di preparazione al parto di PUFA n-3 è quello sull’efficienza del sistema immunitario.

Nell’allevamento estensivo i ruminanti assumono discrete quantità di acidi grassi insaturi sia omega-3 che omega-6 dal pascolo, soprattutto primaverile. Infatti, anche nel latte prodotto in questi mesi dell’anno si ha una concentrazione significativamente più alta di questi acidi grassi e dei loro isomeri rispetto ai mesi invernali.

In una interessante review di V. Lupreiato ed altri, pubblicata sul Journal of Animal Science and Biotechnology (2020 11:96) ed intitolata “Role of nutraceuticals during the transition period of dairy cow: a review”, vengono indicati dagli autori gli effetti dell’inserimento degli acidi grassi essenziali nella dieta delle bovine durante il periodo di transizione.

Arricchire le diete dei ruminanti da latte di PUFA n-3 e farli arrivare indenni nell’intestino per essere assorbiti, sia durante la preparazione al parto che nelle prime settimane di lattazione, è molto più complesso rispetto ai monogastrici. In questi animali basta aggiungere alla dieta giornaliera oli raffinati o alimenti che apportano i PUFA per aspettarsi un aumento di questi acidi grassi nel sangue circolante e nei tessuti di destinazione. Nei ruminanti da latte, invece, nella pratica di allevamento è impossibile stimare se gli ALA, DHA o EPA contenuti negli alimenti inseriti nella dieta arrivino effettivamente nel sangue degli animali e nella concentrazione desiderata.  Allo stato attuale delle conoscenze non esistono biomarker “commerciali” per fare questa valutazione. Molto empiricamente si segue l’andamento della concentrazione del grasso del latte. Se dopo l’inserimento di questi acidi grassi, questa tende a calare significa che alcuni isomeri di questi PUFA hanno resistito all’attività ruminale e sono giunti nell’intestino. Seguire le indicazioni dei molti esperimenti fatti è anch’esso difficile perché le condizioni sperimentali sono molto spesso diverse da ciò che avviene negli allevamenti. Una soluzione utile è quella di verificare in allevamento se dopo l’inserimento di una determinata fonte di PUFA-omega-3 migliorino le performance produttive, riproduttive e sanitarie degli animali. Sicuramente i sistemi chimico-fisici di rumino-protezione dei PUFA aumentano la quantità di questi acidi grassi che arriva indenne all’intestino ed eliminano i rischi di riduzione del grasso del latte.