Per additivi utilizzabili nei ruminanti, siano essi da latte o da carne, intendiamo tutte quelle molecole o prodotti, di sintesi o naturali, che vengono associati agli altri nutrienti della razione come proteine, carboidrati, grassi e macro-minerali, al fine di migliorare lo stato di salute, la fertilità e la produzione degli animali.

La scelta degli additivi da utilizzare e del dosaggio da impiegare è piuttosto complessa ma va soppesata attentamente in quanto ha un peso nei costi d’alimentazione a volte, anzi spesso, rilevante. Il costo dell’alimentazione è la spesa più elevata che un allevatore deve sostenere. Nella bovina da latte l’esborso per alimentare tutti gli animali, compresi quelli non in lattazione, può incidere dai 0.25- 0.30 centesimi per litro di latte. Quelli che in genere vengono classificati nel conto economico come integratori possono incidere da 0.012 a 0.025 centesimi per litro di latte.  E’ pertanto necessario essere certi della loro reale efficacia, del dosaggio corretto a cui utilizzarli e di quale sia il ritorno economico che ci si aspetta.

Per molti allevatori è oggettivamente difficile valutarne in campo l’efficacia, soprattutto nei ruminanti. E’ pertanto altamente sconsigliabile eseguire le così dette “prove” in allevamento, sempre poco significative dato che si rischia di adottare additivi privi d’efficacia e quindi di aggravarsi di costi inutili scartando invece additivi importanti ad alto ritorno economico. La via da seguire per orientarsi in questo “ginepraio” è quella di affidarsi al parere di un docente universitario o di un professionista, non in conflitto d’interesse e specialista del settore, a cui richiedere un giudizio sui prodotti offerti o di cui si è venuti a conoscenza. Il consulente valuterà del prodotto la presenza di ricerche scientifiche, dando l’assoluta preferenza a quelle pubblicate su riviste scientifiche indicizzate e magari oggetto, se numerose, di meta analisi e systematic review.

Quindi se un additivo ad un particolare dosaggio è considerato efficace dalle pubblicazioni in questione, può tranquillamente essere adottato sia per un uso sistematico che nel momento in cui si presenta il problema per il quale è indicato. Molte aziende “evitano” di sottoporre i propri additivi a prove scientifiche pubblicabili sulle riviste indicizzate, o perché non hanno la certezza dell’efficacia dell’additivo o semplicemente per una questione di costi. Il passo successivo del consulente è in genere cercare di capire il meccanismo d’azione, che deve necessariamente rispondere alla semplice regola dell’essere “plausibile”, per non rischiare di incombere in “distorsioni” o bias, fenomeni estremamente frequenti in campo biomedico ed in agricoltura. Per meglio comprendere il concetto di plausibilità è bene fare degli esempi.

Come fa un additivo, il cui dosaggio d’impiego consigliato è nell’ordine di pochissimi grammi, ad avere effetto su un rumine che ha un volume di oltre 150 litri? Alcuni lieviti di birra vengono prescritti in questo modo. Oppure, perché un determinato additivo somministrato per via orale dovrebbe ridurre la presenza di cellule somatiche nel latte, che altro non sono che leucociti che stanno cercando di eliminare un patogeno presente in mammella? Come fa un “gruppo Bnon rumino protetto ad avere una qualsiasi efficacia se somministrato ad un ruminante per curare una lipidosi epatica? Per alcune vitamine, come la vitamina A, D, E, B12 e la biotina, sono presenti molte evidenze scientifiche che ne comprovano l’efficacia e ne determinano il giusto dosaggio. Per le altre, la letteratura scientifica è piuttosto “fragile” e piena di “distorsioni”.

Per gli oligoelementi  consentiti dalla legge si sa molto in termini di efficacia e dosaggio. Per alcuni additivi che hanno effetto sulla lipidosi epatica, come la colina e la carnitina rumino protette, sono a disposizione numerosi studi ed è quindi possibile, qualora servano, utilizzarli al giusto dosaggio perchè altrimenti sarebbero totalmente inefficaci. Lo stesso si può dire per amminoacidi come la metionina e la lisina, sempre rigorosamente rumino-protetti. In quest’ultimo caso è tutto più semplice: attraverso alcuni software di razionamento si può prevedere il bilancio nella razione e osservando il biomarker “concentrazione di proteina del latte < 2.90% nella frisona nelle prime settimane di lattazione” controllarne dosaggio e reale eventuale carenza. Più complicato è invece stabilire la necessità e l’efficacia che ha l’integrazione della dieta con il così detto “lievito di birra” (Saccharomyces cerevisiae). Vivo o spento? Per non scegliere di utilizzare il lievito di birra per motivi puramente emozionali è necessario considerarne il dosaggio corretto, capire quanto veramente ce n’è nell’integratore e, soprattutto valutare la correttezza del prezzo di vendita. Stesse considerazioni si possono fare per i terreni di fermentazione dell’Aspergiullus oryzae.

Diverso invece è un acquisto consapevole di lievito di birra di grande qualità per fornire al microbiota ruminale un buon fattore di crescita. C’è poi una lunga serie di additivi di cui è oggettivamente difficile comprendere il meccanismo d’azione, che sono spesso privi di evidenze scientifiche e dotati unicamente di prove di campo. Anche il campo degli oli essenziali è interessante ma spesso difficile da comprendere nei ruminanti. Sappiamo come si comporta il rumine nei confronti degli acidi grassi polinsaturi e delle matrici proteiche.

Attraverso le regole dettate dal buon senso e dalla scienza si può avere la “bussola” giusta per scegliere additivi di “comprovata efficacia” ed utilizzarli alla giusta dose. Le scorciatoie emotive e magiche che alcuni additivi promettono oltre ad essere costose sono anche pericolose perchè impediscono di identificare il problema e di approntare rapidamente degli interventi che possono anche comprendere l’utilizzo di un additivo corretto alla dose corretta.