Molto spesso ci si pone un dilemma: è la pubblicità a condizionare i consumi oppure è la pubblicità  a doversi adeguare ai nuovi costumi dei consumatori? Sicuramente il consumatore grazie alla massiccia diffusione della Rete e dei social network è molto più informato del passato. Questi potenti strumenti di socializzazione permettono infatti il rapido diffondere d’informazioni, giuste o sbagliate che siano. Ma questa è la libertà.

La Rete sta mettendo in forte discussione il ruolo di “garanti” della qualità dell’informazione dei giornalisti, dando voce ad una moltitudine impressionante di persone che prima non ne aveva. Le popolazioni occidentali sono enormemente più sensibili che in passato ai temi etici e salutistici e la notizia che qualcosa possa far male si diffonde grazie alla Rete molto rapidamente. Ne avemmo la consapevolezza quando, qualche anno fa, si diffuse la notizia che l’SLS (sodio-lauril-solfato) presente negli shampoo e nei bagnoschiuma, facesse male alla salute e all’ambiente, provocando un crollo delle vendite di questi prodotti a torto o a ragione.

Siamo stati recentemente spettatori della rapida diminuzione dell’uso dell’olio di palma, ritenuto dannoso per la salute umana e per l’ambiente (deforestazione). Le lobbies e le grandi multinazionali che posseggono prodotti di varia natura, non hanno più la capacità di opporsi, anche utilizzando imponenti investimenti pubblicitari e non solo, alle sensazioni e agli umori della gente più o meno scientificamente motivate. Sostanze che magari fanno male a gruppi specifici di consumatori diventano, grazie alla Rete, di colpo dannose per tutti. Questo anche per alimenti la cui produzione mette a rischio la qualità dell’ambiente o procura sofferenze agli animali. Esempi più o meno recenti sono quelli del glutine e dell’olio di palma. E’ un proliferare di comunicazioni in cui viene specificato con enfasi per un prodotto essere gluten free, olio di palma free, lattosio free e OGM free.

Negli ultimi tempi sembrerebbe che nella lista delle “cose cattive” sia entrato anche il latte. Si sta diffondendo , ed in modo virale, l’idea che il latte fa male comunque e a prescindere e che le bovine che lo producono sono sottoposte ad un regime di “carcere duro”. Il crollo dei consumi, di cui Ruminantia  sta parlando da tempo, è abbondantemente quantificato ma sembrerebbe che la cosa interessi a pochi e le reazioni dei portatori d’interesse in questo campo sono piuttosto insignificanti. La gente si allontana dal latte perché è convinta che faccia male ma soprattutto che venga prodotto da animali che soffrono. Quello che sorprende è il fatto che questo disagio non venga percepito dalla comunicazione dell’industria lattiero-casearia e dai consorzi di tutela. Soprattutto sconcerta che si continuino a dare messaggi diversi da una realtà oggi facilmente verificabile dai consumatori grazie ai media.

Buona parte dell’industria e dei consorzi di tutela rappresenta le bovine su improbabili pascoli erbosi, accudite amorevolmente da “contadini” di fine 800. Quando poi il cittadino si accorge  che le vacche vivono sul cemento e dietro ai “ferri” (cuccette e autocatturanti) e quando vede trattori costosi come  appartamenti occupare, durante le manifestazioni, i caselli autostradali o gli aeroporti, rimane sconcertato e aumenta la diffidenza verso il latte.

Ancora nessuno degli stakeolder, si è preso la briga di spiegare ai cittadini che quei grandi trattori non sono beni di lusso ma servono per lavorare  a costi sempre più bassi la terra. Che le stalle sono fatte così perché se allevassimo al pascolo tutte le bovine necessarie a produrre il latte per la gente, esse occuperebbero il 13% dei 30.000.000 di ettari del nostro paese. E questo per produrre, come ora, solo il 70% del latte di cui abbiamo necessità. L’industria lattiero-casearia e i consorzi di tutela con la loro comunicazione “naÏf”  stanno ottenendo l’effetto opposto, dando ai consumatori la sensazione di un inganno. Il basso prezzo del latte alla stalla preoccupa ma sarebbe un problema di relativamente facile soluzione se si volesse. Arginare il crollo dei consumi è invece tutt’altro che facile e qui l’allevatore può fare veramente poco. Nonostante questo ci sono alcune lodevoli iniziative di gruppi spontanei di allevatori che invitano le scuole e i cittadini a visitare i propri allevamenti o vanno a parlare direttamente nelle scuole. Certo è che gli attuali ambienti d’allevamento principalmente basati sul sistema “autocatturanti-cuccette-allontanamento precoce del vitello dalla madre” mal si coniugano con la crescente sensibilità etica dei consumatori e che un rapido passo indietro o meglio in avanti va fatto.  Se gli allevatori e l’industria si parlassero invece di gridarsi contro, forse si troverebbe rapidamente una soluzione; altrimenti “ muoia Sansone con tutti i Filistei”.

editoriale