Nelle pagine di Ruminantia abbiamo più volte affrontato l’argomento dei claim perché li riteniamo essere forse l’unica scialuppa di salvataggio per gli allevatori di bovine da latte, e non solo, che non vogliono o non possono produrre il latte commodity. La scialuppa di salvataggio per chi produce quest’ultimo tipo di latte è solo ed esclusivamente la forza contrattuale. Uno stimolo a tornare sull’argomento e a farne l’editoriale del numero di Ruminantia Mese d’inizio anno è stata la recente “chiaccherata” dal titolo “Quale futuro per la zootecnia da latte” a cui mi ha inviato Luca Acerbis per il suo blog Steaming-Up. Devo dire che anche la sollecitazione di Martino Cassandro ha sortito il suo effetto.
Il latte e molti formaggi, anche quelli a Denominazione (DOP, IGP e STG), sono già di fatto classificabili tra le commodity, in virtù delle grandi oscillazioni di prezzo che subiscono sulla base del rapporto tra domanda e offerta e delle speculazioni. Queste oscillazioni sono lievissime nelle vendite al dettaglio mentre sono molto ampie all’ingrosso e per il prezzo del latte alla stalla. Se la riduzione del prezzo di una referenza agroalimentare sugli scaffali della GDO o nel canale Ho.Re.Ca. fosse finalizzata a recuperare le vendite, sarebbe giusto che a caduta qualche sacrificio lo facesse anche l’allevatore per il prezzo del latte alla stalla. Non siamo però abituati a questo scenario, almeno dove non esistono vere filiere. Le reiterate azioni speculative stanno selezionando gli allevatori italiani di vacche da latte, ma anche quelli del resto del mondo, al punto di avere creato un paradosso: la produzione di latte bovino in Italia negli ultimi 12 anni è cresciuta del 15.2% mentre negli ultimi 11 anni abbiamo perso 15.367 allevamenti e 76.625 capi rispetto alle 40.622 stalle censite al 30 giugno 2010 dalla BDN. Questa “pressione selettiva” è stata essenzialmente determinata dalle scelte che gli allevatori hanno dovuto fare per poter continuare a produrre latte commodity, ossia un latte indifferenziato che si può produrre in ogni parte del mondo con l’unico vincolo di rispettare le leggi e le norme. E’ tipico per il latte commodity avere un break even, ossia un punto di pareggio vicino al prezzo di vendita.
Questo modo di concepire la traiettoria di sviluppo della produzione italiana di latte ha però sconvolto il tessuto agricolo e sociale del nostro Paese. La chiusura delle piccole stalle e di quelle ubicate nelle aree marginali ha infatti determinato l’abbandono, e quindi la mancata custodia, del territorio, aumentato la disoccupazione e privato i consumatori di prodotti agroalimentari e ricreazionali di alto valore intrinseco ed evocativo.
Nel dover adattare la sua zootecnia alla produzione del latte commodity, il nostro Paese ha adottato, spesso acriticamente, il modello statunitense, che è attualmente il migliore per potere resistere ad un prezzo del latte alla stalla anche molto basso ma che è maturato in un contesto sociale e culturale enormemente diverso da quello europeo. La nostra zootecnia da latte è stata abilissima a farlo suo, al punto di riuscire a competere senza problemi con gli allevatori del resto del mondo. Lo USA Style del modo di gestire, alimentare e curare gli animali, e di come costruire le stalle ha contaminato tutto l’allevamento bovino, sia di pianura che delle aree interne, creando un problema che allora non era stato previsto e che ora si chiama opinione pubblica. Il modello USA è estremamente coerente ed ha come unici obiettivi la performance tecnica e quella economica di un’azienda agricola. Contemporaneamente a ciò, il nostro Paese ha continuato ad investire, anche culturalmente, nei prodotti a Denominazione d’origine, fino a diventarne leader europeo, ma non ha gestito con la dovuta attenzione la contraddizione tra formaggi eccellenti e carichi di storia e stalle costruite e gestite per onorare solo ed esclusivamente il dogma dell’economia di scala, e quindi adatte a fare latte commodity e non eccellenze lattiero-casearie.
Nel frattempo, però, è successo quello che era ampiamente prevedibile, ossia l’evoluzione del sentire collettivo della gente nei confronti dei temi ambientali e dei diritti degli animali. La diffusione endemica di Internet e dei Social Network ha connesso l’umanità, permettendo alla gente di tutte le fasce sociali, etniche ed economiche di maturare idee e convinzioni che ormai hanno stravolto il modo di fare politica, marketing e comunicazione. I consumi dei prodotti del latte e della carne sono in crescita nel mondo perché fasce sempre più ampie della popolazione si stanno affrancando dalla fame e finalmente possono accedere a questi nobili alimenti. Se si guardano i consumi delle fasce più agiate, colte e giovani della popolazione occidentale si osserva però un inevitabile crollo dovuto alla diffusa convinzione che gli allevamenti siano altamente inquinanti ed abitati da animali sfruttati e sofferenti. Siccome il modello USA di produrre il latte si è diffuso, come ho già detto, anche negli allevamenti delle aree interne e in quelli che producono le eccellenze lattiero-casearie italiane, si è dato alla gente un motivo in più per maturare questa opinione negativa.
Ma una volta preso atto della frattura che si stava creando tra opinione pubblica e allevamenti, quale è stata, ed è, la posizione assunta, con le dovute eccezioni, dall’industria lattiero-casearia e da qualche Consorzio di Tutela?
Inizialmente quella di delegare la soluzione alle agenzie di comunicazione, e quindi al marketing, invece di avviare un dialogo di filiera, con la stampa e con le associazioni animaliste e ambientaliste. Ancor più grave è stata la reazione di invocare la censura quando il giornalismo d’inchiesta ha attaccato l’allevamento intensivo e il rifiuto di qualsiasi forma di dialogo, al quale invece non si stanno sottraendo i tanti allevatori che stanno aprendo le stalle al pubblico ed alla stampa. L’industria del latte ha pensato bene di rassicurare i consumatori diffondendo immagini naïf degli allevamenti, raffigurati come popolati di contadini felici e vacche su pascoli paradisiaci, utilizzando il modello altoatesino dell’allevamento primaverile estivo per rassicurare la gente. In pratica si è utilizzato lo stilema dell’allevamento “Heidiano” come antidoto verso l’allevamento intensivo di modello statunitense. Il giornalismo d’inchiesta, ma anche gli stessi cittadini, hanno però visto che la realtà era tutt’altra, e questo non solo non ha risolto il problema ma lo ha anche peggiorato, creando nella mente della gente il bisogno di un allevamento riconducibile a quello estensivo, assente in Italia perché non ci sono le condizioni climatiche idonee e perchè le bovine delle razze che abbiamo selezionato mal si adattano a tutto ciò. Non si può ovviamente classificare come estensivo un allevamento di bovine da latte che le tiene al pascolo qualche mese all’anno e al chiuso durante l’autunno e l’inverno.
Prima di proseguire questa riflessione, è bene approfondire cosa significa in pratica lo USA Style nel produrre latte bovino. Bisogna dire in premessa che questo metodo di produrre latte non è negativo in sé, perché l’umanità ha bisogno di latte commodity, ossia di grandi quantità di latte a basso costo, per migliorare la sua salute e le sue performance intellettuali, per cui è eticamente giusto ed economicamente conveniente per chi può, e lo sa fare, continuare a produrlo. Il modello USA si concretizza in quel tipo di allevamento, che viene anche definito intensivo, dove ogni metro quadro di stalla e di campagna è ottimizzato al massimo. Questo tipo di allevamenti è in grado di ottenere la massima produzione di latte al minor costo possibile per superficie agricola investita, il tutto sempre nel rispetto delle legislazione corrente. Gli allevamenti che rientrano in questa categoria hanno tutte le superfici calpestabili in cemento, non hanno accessi all’esterno, utilizzano autocatturanti e cuccette per riposare, praticano l’unifeed, allontanano i vitelli dalle madri alla nascita, usano le sincronizzazioni ormonali a tappeto e allevano bovine con una durata della vita “funzionale” piuttosto breve. Non sono però in grado di offrire risposte ai consumatori che vogliono rassicurazioni sul rispetto dell’ambiente e sulla salvaguardia della dignità degli animali, ma solo a quelli che per cultura o per necessità vogliono e devono spendere il meno possibile quando comprano latte, yogurt e formaggi. Al contrario, i consumatori che acquistano i prodotti del latte certamente per nutrirsi ma anche, e soprattutto, per fare esperienze sensoriali e godere dell’Italian Style sono in forte difficoltà, perché referenze di questo tipo dotate dei claim che loro cercano sono difficili da trovare sugli scaffali della GDO e tra gli ingredienti del canale Ho.Re.Ca.. Latte e formaggi così si trovano oggi nei caseifici agricoli, nei ristoranti di un certo tipo o nei negozi specializzati.
La storia dei claim, almeno di quelli di massa, dei prodotti lattiero-caseari è fatta di corsi e ricorsi storici e giganteschi equivoci. Ricordo perfettamente quando, nell’ormai lontano 1991, il DM n° 185 introdusse una nuova categoria di latte, il “latte fresco pastorizzato di alta qualità”, visto con preoccupazione e speranza dagli allevatori perché prometteva al consumatore una concentrazione superiore di grasso e proteine ed una inferiore di cellule somatiche, e all’allevatore un prezzo del latte alla stalla più remunerativo. Con il passare degli anni, grazie al miglioramento genetico delle vacche e delle tecniche di alimentazione e gestione degli allevamenti, questo claim si è dissolto, in quanto ormai il latte fresco è di fatto tutto di alta qualità. In ogni caso, questo claim diede una risposta al bisogno della gente di avere un latte con un miglior sapore, ebbe la paternità dell’introduzione dei sistemi di pagamento a qualità e diede all’industria lattiero-casearia e al Retail la possibilità di aumentare il prezzo di vendita al pubblico del latte fresco. Altri claim minori si sono avvicendati in questi anni ma interessante è la storia tuttora in corso del potenziale claim relativo al “Benessere animale”. Come l’allora “alta qualità”, anche questa definizione è povera di contenuti e facilmente equivocabile. Noi addetti ai lavori sappiamo che il temine medico “benessere” è il contrario di malessere e quindi di malattia e che, specialmente nell’allevamento degli animali da latte, è un requisito della produzione. Ci riesce quindi difficile classificarlo tra i potenziali claim. Nel cercare di riprendere per i “capelli” i consumatori in fuga dai prodotti del latte, l’industria lattiero-casearia si è affrettata a valutare gli allevamenti con il metodo CReNBA ma ciò ha avuto l’unico merito di individuare e redarguire gli allevatori incapaci di fare il loro lavoro. Oggi, in Italia abbiamo un numero elevato di veterinari abilitati a valutare il benessere animale ed un numero consistente di allevamenti verificati. Mi risulta che il tasso di valutazione positiva sia molto elevato ma ho il dubbio che questa metodologia, oggi evoluta nel ClassyFarm, sia in grado di migliorare la qualità della vita delle bovine e generare un claim che possa rassicurare i consumatori. Così come è stato strutturato è semplicemente un requisito normativo temporaneo per le produzioni animali, da utilizzare mentre aspettiamo di sapere cosa legifererà la Commissione europea sul tema del benessere animale bovino.
In attesa che nelle dovute sedi si ripensi alla produzione italiana del latte, ed alle opportunità sociali e occupazionali che potrebbe portare sia nelle zone vocate che in quelle marginali, è bene avviare quelle riflessioni non ideologiche che partono dal semplice presupposto che il latte e i formaggi li consumano le persone, e che quindi sono solo loro a dettare l’agenda degli allevatori e dell’industria del latte, specialmente quando vestono l’abito del consumatore. L’avvento di Internet e del web ha reso i consumatori meno addomesticabili rispetto a quando regnavano i media broadcast, la pubblicità e le autorità.
Mi sembra che siano proprio gli allevatori ad avere più chiaro cosa bisogna fare per riconquistare l’amore dell’opinione pubblica. Mi sembra invece ancora molto lontana l’industria lattiero-casearia, ormai cristallizzata in visioni di brevissimo periodo. Qualche novità sta però arrivando da alcuni Consorzi di Tutela, e da uno in particolare. Quello che a mio avviso devono fare gli allevatori è decidere “cosa fare da grandi”, ossia quale indirizzo produttivo prendere: se rimanere nella produzione di latte commodity rendendola sempre più efficiente oppure se cominciare a collezionare claim e narrazione fintanto che a qualche industria del latte non verrà un sano spirto imprenditoriale decidendo di presentarli all’opinione pubblica ed ai consumatori. Ognuna di queste referenze intercetta l’intenzione d’acquisto di un caleidoscopio di consumatori. E’ però metodologicamente importante far precedere queste valutazioni strategiche dall’adozione di un metodo professionale di gestione del conto economico, in modo da poter fare delle simulazioni economiche e finanziarie delle scelte che si vorrebbero intraprendere. Un aspetto a mio avviso diffuso negli allevamenti è quello di confondere il ricavo o fatturato con l’utile d’esercizio. La correlazione tra fatturato e margine operativo non è poi così lineare. Potrebbe verificarsi una condizione in cui guadagna di più un allevamento che ha una produzione pro capite più bassa rispetto ad uno che ne ha una più alta perché le variabili dei vari centri di costo e di ricavo possono essere molto elevate, ma su questo argomento Arrigo Milanesi ha riempito in questi anni le pagine della sezione economia di Ruminantia Mese.
Conclusioni
Le conclusioni che si possono trarre, e che possono servire come premessa alla stesura di un piano nazionale di riqualificazione della nostra filiera lattiero-casearia, devono partire dal presupposto che ormai si devono fare quei prodotti che la gente, quando diventa consumatore, desidera acquistare e che con l’opinione pubblica non ci si deve scontrare ma negoziare e trovare compromessi. E’ poi necessario comprendere che ormai il latte inteso come generico liquido bianco secreto dalle vacche esiste solo dal punto di vista biologico, non commerciale. Un altro pilastro fondamentale per riqualificarci è che al giorno d’oggi esistono tante e diverse tipologie di consumatori che non possono essere raggruppate in una sola categoria. Questa “biodiversità” esiste anche tra gli allevatori. C’è chi fa bene il latte commodty perché lo sa e lo può fare, e che deve continuare a farlo a patto che sia remunerativo; c’è poi chi, per infinite ragioni, è meglio che scelga la strada di generare claim, la cui lista è oggi diventata molto lunga, utilizzabili per le infinite forme che si vogliono dare al latte. L’Italian Style, che è molto diverso dal Made in Italy, può facilmente generare un’alternativa allo USA Style concependo allevamenti intensivi che possono produrre latte non commodity, allevamenti che diano risposte concrete e certificabili ai consumatori e all’opinione pubblica e in grado di reclutare nel latte la storia e le tradizioni del nostro inimitabile bel Paese.
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