La ricerca  scientifica è il motore dello sviluppo tecnologico. E’ l’ambito in cui vengono accumulate le conoscenze che servono all’umanità per progredire e migliorare il proprio benessere. I risultati della ricerca scientifica servono allo sviluppo di nuovi prodotti, processi e metodologie solitamente da parte dell’industria, dell’agricoltura e dei professionisti. Il mondo investe molto in questo campo. Nel 2016 sono stati investiti sia soldi pubblici che capitali privati, pari a 1883 miliardi di dollari, ripartiti, rispettivamente, in un rapporto 1:2. Questa cifra è pari all’1.75% del PIL mondiale. In cima alla classifica dei paesi che hanno investito maggiormente in Ricerca & Sviluppo troviamo l’Asia (41.8% del totale), seguita poi da USA (31%) ed Europa (21%). In Europa gli investimenti in questo settore sono stabili dal 2006 sull’1.87% del PIL, negli USA sul 2.77%, in Cina l’1.98%, in Giappone il 3.39% e in Corea del Sud sul 4.04%.

In Europa, ad investire di più è la Germania che destina alla Ricerca & Sviluppo il 2.92% del PIL (109 miliardi di dollari), seguita dalla Francia con il 2.26% (60.5 miliardi) e dalla Gran Bretagna con l’1.78% (45.54 miliardi). L’Italia si classifica invece al quarto posto investendo l’1.27% del suo PIL (26.66 miliardi). C’è da precisare che nel nostro paese l’investimento pubblico, ossia quello destinato alle Università e ai Centri di ricerca istituzionali, supera l’investimento in R&D dell’industria. In ogni caso, siamo al 13° posto nel mondo. Ma dove finiscono i risultati della ricerca scientifica? Quella fatta dall’industria, principalmente applicata, viene utilizzata per sviluppare nuovi prodotti (sviluppo tecnologico) mentre quella scientifica, finanziata con fondi pubblici, viene utilizzata per le riviste scientifiche.

Uno scienziato, e più in generale un accademico, ha la necessità, per fare carriera e per continuare ad accedere ai finanziamenti pubblici, di divulgare i propri lavori sulle riviste scientifiche indicizzate e dotate di un “Impact factor”. Questo termine misura in maniera oggettiva ed internazionale quante volte la sua ricerca è citata in quelle altrui ed è oggi riconosciuto universalmente come metodo di misura dell’attività e della qualità della ricerca di uno scienziato. Un lavoro scientifico, prima di essere pubblicato sulle riviste indicizzate, subisce una ulteriore revisione da parte di altri ricercatori (peer review) che svolgono gratuitamente e anonimamente questo prezioso lavoro.

Oggi queste riviste sono in mano ad un oligopolio di case editrici multinazionali che pubblicano queste indagini a pagamento e che richiedono cifre spesso molto importanti a chi ha necessità di consultarle. Per “scaricare” la versione integrale di un articolo scientifico si spendono poco meno di 40 euro (readers-pay), a meno che non si abbia l’abbonamento alla singola rivista o un accesso on-line ad un gruppo di esse (sempre a pagamento). Fanno eccezione in questo business miliardario le pubblicazioni “open access”, che sono però in netta minoranza nel panorama dell’editoria scientifica.

Questo oligopolio, come si diceva prima, è detenuto da pochi gruppi. Basti pensare che Elsevier, Springer, Willey-Blackwell , Taylor & Francis e Sage Pubblication pubblicano ben 10.200 riviste scientifiche oltre alle 1000 di società e associazioni scientifiche. Il solo gruppo olandese Elsevier pubblica 420.000 articoli l’anno su 2500 riviste ed ha nei suoi archivi 30 milioni di documenti con circa 900 milioni di download all’anno. Elsevier ha un fatturato di 2114 milioni di dollari e un profitto molto vicino al 40%.

In questo contesto, qual è il paradosso? I soldi pubblici, ossia quelli versati dai cittadini con le tasse, finanziano la ricerca scientifica e la sua pubblicazione ma, per poterla utilizzare, l’utente, sia esso uno scienziato, un industria, un tecnico o un semplice cittadino, deve pagare nuovamente. Molti sono gli scienziati che si stanno opponendo a questo controsenso battendosi per l’open access totale nel silenzio di quasi tutti governi del mondo.

L’accesso esteso alla ricerca scientifica sarebbe, per il lavoro dei professionisti e per quello delle industrie che non si possono permettere investimenti elevati in R&D, di un valore inestimabile, favorendo il progresso delle attività del mondo produttivo. Questa “stortura” ha oggettivamente frenato il progresso dell’umanità e fatto proliferare l’improvvisazione, la crescita per tentativi o addirittura le cosiddette “scuole di pensiero”, orfane del rigore della ricerca scientifica e figlie dell’esperienza empirica, che purtroppo, in questo contesto, possono difficilmente essere criticabili.