Impiego di additivi per manipolare le fermentazioni ruminali, migliorare l’impiego dei nutrienti ed incrementare le performance produttive.

Il rumine è sicuramente il comparto principale del tratto enterico delle specie ruminanti. Infatti la sintesi di proteina microbica (MP) ed acidi grassi volatili (AGV) garantisce il soddisfacimento di gran parte dei fabbisogni nutrizionali della bovina da latte. Inoltre una funzionalità ruminale sub-ottimale può causare dismetabolie, ridurre l’ingestione di sostanza secca (SSI) e la digeribilità della razione con ripercussioni negative in termini di efficienza produttiva e maggior escrezione di polluenti da parte della bovina.

Gli additivi alimentari sono composti tipicamente aggiunti alle diete per migliorare l’utilizzazione dei nutrienti e le performance produttive, ridurre i rischi di insorgenza delle più comuni dismetabolie e limitare l’impatto ambientale delle produzioni animali. Idealmente un additivo dovrebbe possedere una o più delle seguenti caratteristiche:

  1. capacità di modulare il pH ruminale riducendo l’accumulo di acido lattico derivante dall’uso di razioni riccamente dotate in carboidrati fermentescibili e dunque ridurre il rischio di insorgenza di dismetabolie (acidosi);
  2. migliorare lo sviluppo del comparto ruminale del giovane bestiame;
  3. migliorare l’efficienza d’uso dell’energia presente in razione riducendo la metanogenesi, attraverso il contenimento del rapporto “acetato:propionato”, senza limitare la digeribilità dell’NDF (NDFD) e la sintesi di grasso del latte;
  4. migliorare, a livello ruminale, l’efficienza d’uso dell’azoto (N) attraverso l’incremento della sintesi di MP e una migliore sincronia nella disponibilità energetica ed azotata. È fondamentale dunque la modulazione di proteolisi e deaminazione per minimizzare la produzione e la perdita di N ammoniacale tramite, ad esempio, l’inibizione dell’attività protozoaria. I protozoi infatti sono responsabili sia della predazione della microflora e quindi del turn-over proteico a livello ruminale, sia della simbiosi con la flora metanogena;
  5. migliorare la digeribilità della sostanza organica e dell’NDF;
  6. incrementare la produttività animale in maniera economicamente sostenibile ed evidentemente approvata dal Legislatore.

Questo articolo ha l’obiettivo di descrivere alcuni dei principali additivi impiegati nell’alimentazione della vacca da latte, con particolare riferimento alle azioni esplicate a livello ruminale.

Lieviti

I lieviti sono organismi unicellulari appartenenti al regno dei miceti in grado di fermentare i carboidrati. I prodotti commerciali si dividono in formulati a base di lieviti vivi o spenti. I primi sono caratterizzati da elevate concentrazioni di cellule vive, appartenenti generalmente alla specie Saccharomyces cerevisiae. La biomassa viene normalmente disidratata per preservare la vitalità e l’attività metabolica delle cellule. I secondi, denominati colture di lievito, non contengono cellule vive bensì il mezzo di crescita dei lieviti ed i metaboliti sintetizzati, nonché le cellule devitalizzate. Alcuni Autori riportano che il principale effetto dell’utilizzo di lievito sia la stimolazione della popolazione batterica cellulosolitica e della specie fungina N. frontalisendogena a livello ruminale. Ciò generalmente determina una superiore NDFD e conseguentemente una maggior SSI. Tale aspetto positivo potrebbe essere ascrivibile al consumo di ossigeno (presente in basse concentrazioni anche a livello ruminale) da parte dei lieviti vivi, dal momento che la microflora cellulosolitica è strettamente anaerobia. Alcuni studi infatti hanno dimostrato in vitro ed in vivo che l’uso di lieviti determina la riduzione del potenziale redox del comparto ruminale. La supplementazione della dieta con lieviti può comportare la modulazione del pH ruminale tramite la stimolazione della popolazione protozoaria appartenente all’ordine Entodiniomorphida, in grado di fagocitare le particelle amidacee e competere con la microflora amilolitica per la fermentazione dell’amido effettuata, in questo caso, a tassi inferiori con minor produzione di substrati acidogeni come l’acido lattico. A riguardo del metabolismo azotato ed energetico a livello ruminale, il lievito, stimolando la popolazione microbica, dovrebbe incrementare la velocità di fermentazione dei substrati alimentari e la produzione di MP: teoricamente questo dovrebbe favorire fermentazioni sincrone in grado di ridurre la concentrazione di ammoniaca a livello ruminale. In pratica tuttavia in letteratura sono riportati riscontri alquanto variabili: riduzioni delle concentrazioni ammoniacali sono state segnalate in alcune prove sperimentali ma non in altre. Ad esempio Wallace e Newbold (1995) sostengono che gli additivi di origine fungina determinano effetti sulla produzione di AGV e sulla concentrazione ammoniacale limitati e spesso non significativi.

A seguito di prove in vitro, alcuni Autori segnalano che l’uso di lieviti vivi possa determinare una riduzione della metanogenesi ruminale. Tuttavia tali effetti non sono univoci, dal momento che i risultati possono essere influenzati da svariati fattori quali: ceppo di S. cerevisiae impiegato, dipendenza dallo stadio di lattazione delle bovine impiegate durante le prove, ovvero inadeguato intervallo di incubazione dei substrati alimentari durante le prove in vitro, tali da mascherare gli effetti derivanti dall’utilizzo di lieviti in razione. Da quanto evidenziato sopra consegue che l’aggiunta di lieviti in razione può migliorare le performance animali, ma i risultati dipendono da alcuni fattori quali: potenzialità produttiva degli animali e stadio fisiologico durante la lattazione, caratteristiche nutrizionali della razione, nonché il management alimentare degli animali. Ciononostante Wallace e Newbold (1995) riportano come risultato di una rassegna bibliografica che riassume i dati di 9 sperimentazioni che l’uso di lieviti determina un aumento medio della produzione lattea pari a +5,1%. Il medesimo risultato viene confermato da Robinson e Erasmus (2009), che riportano incrementi di SSI e produzione lattea pari rispettivamente a +1.8 e 2.7%, con un leggero incremento anche dell’efficienza d’uso dell’N.

In conclusione l’aggiunta di lieviti dovrebbe stimolare la numerosità e l’attività della microflora ruminale, con particolare riferimento alle specie fibrolitiche. Ciò ha potenzialmente ripercussioni positive in termini di incremento della NDFD, dell’SSI, della sintesi di MP e di conseguenza l’aumento delle performance produttive. Sequestrando l’ossigeno presente in piccole quantità nel comparto ruminale, i lieviti sono in grado di stimolare la crescita della popolazione batterica anaerobia obbligata. Inoltre, attraverso la stimolazione della popolazione protozoaria in grado di fagocitare e fermentare le particelle di amido, essi possono modulare il pH ruminale e ridurre il rischio di insorgenza di dismetabolie quali acidosi e timpanite. In relazione a tali aspetti positivi il loro utilizzo risulta essere interessante durante le fasi di maggior stress metabolico, come la transizione e la prima fase di lattazione, caratterizzate da valori di SSI sub-ottimali e bilancio energetico negativo, oppure durante lo stress da caldo. Hultjien (2008) riporta che l’impiego di lieviti in razioni per vacche da latte determina un ritorno dell’investimento pari a 4:1.

 ENZIMI FIBROLITICI

Gli enzimi sono proteine globulari in grado di catalizzare le reazioni biochimiche, incrementandone la velocità. Essi vengono impiegati da tempo nel razionamento dei monogastrici per accrescere la disponibilità dei nutrienti (fitasi, amilasi e proteasi) o ridurre i composti anti-nutrizionali presenti nell’alimento (β-glucanasi). Nell’alimentazione dei ruminanti l’impiego di enzimi è un concetto relativamente recente, in relazione all’elevata capacità idrolitica nei confronti della componente glucidica vegetale (sia parietale che citoplasmatica) del loro tratto enterico. In commercio esistono pool di enzimi in grado di idrolizzare la fibra NDF (cellulasi ed emicellulasi), con attività variabili e dunque presenza di endoglucanasi, esoglucanasi, xilanasi, proteasi, β-glucosidasi, che si sono dimostrati essere interessanti nell’idrolisi della parete cellulare vegetale.

Gli enzimi fibrolitici svolgono la loro attività tramite la combinazione di svariati processi pre e post-ingestione (McAllister et al., 2001). Nella fase che precede l’ingestione da parte della bovina, l’azione enzimatica è legata ad un’idrolisi di tipo diretto, che determina la scissione dei legami glicosidici presenti nell’NDF, liberando i costituenti monomerici. Peraltro tale processo rimuove parzialmente le barriere strutturali che limitano l’accessibilità ai carboidrati non strutturali (presenti all’interno della cellula vegetale) alla microflora ruminale. Nella fase che segue l’ingestione si ritiene che la loro azione positiva si esplichi attraverso fenomeni quali: idrolisi diretta, aumento dell’appetibilità della razione probabilmente in relazione al rilascio di mono e disacaccaridi, incremento della vicinanza fra substrati e microrganismi, nonché attraverso una sinergia fra le attività degli enzimi endogeni a livello ruminale e quelli di natura esogena, dunque una stimolazione della fermentazione batterica (Beauchemin et al., 2003).

Alcune prove sperimentali consistenti nel trattamento con enzimi di foraggi durante la fase di raccolta e stoccaggio o durante la preparazione della miscelata riportano incrementi della digeribilità della sostanza secca e dell’NDF sia in termini assoluti che di tasso di degradazione, ovvero una riduzione del tenore in NDF della matrice trattata. Tali effetti hanno alle volte determinato, al livello ruminale, un pattern fermentativo caratterizzato dalla riduzione del rapporto “acetato:propionato”, sebbene processi quali la riduzione della deaminazione e della metanogenesi, nonché incrementi della produzione di massa microbica e conseguente maggior apporto di MP a livello di piccolo intestino non siano univoci. Altri studi tuttavia non evidenziano miglioramenti sostanziali.

Il parametro SSI di vacche in lattazione è incrementato in alcuni casi mentre in altre prove sperimentali non si segnalano differenze, così come i dati di produttività (produzione lattea e composizione) non hanno evidenziato trend univoci. Tuttavia Newbold (1997) riporta che l’uso di enzimi fibrolitici determina miglioramenti in termini di incrementi ponderali giornalieri di bovini da carne variabili dal 5 al 30% e incrementi della produzione lattea dal 2 al 15%. La tabella 1 riassume i dati di incremento produttivo in prove effettuate su vacche da latte alimentate con foraggi trattati con enzimi: in media la produzione lattea aumenta di 1,6 kg/die a seguito dell’aggiunta di enzimi alla dieta (Kung, 2001). Tuttavia una recente review rivela che alcuni dei miglioramenti segnalati in realtà non siano statisticamente significativi. Una ulteriore rassegna bibliografica consistente in 41 trattamenti alimentari testati durante 19 esperimenti pubblicati rivela che l’utilizzo di enzimi fibrolitici incrementa la produzione lattea di 2,3-2,7 kg/die, qualora efficace. Tale evenienza si è verificata nel 40% degli esperimenti esaminati (Adesogan, 2009). Va altresì considerato che in alcuni casi la mancanza di significatività statistica durante la valutazione di additivi e quindi la presenza di miglioramenti soltanto numerici può essere causata dalla scarsa numerosità delle replicazioni e dalla conseguente mancanza di potenza statistica per rivelare differenze sperimentali.

Tabella 1: Effetti del trattamento con enzimi sull’incremento di produzione lattea determinati in differenti studi pubblicati.

Esperimento Incremento di produzione lattea (kg/die)1
Beauchemin et al., 1999

+0,3; +1,5

Lewis et al., 1999

+1,2; +6,3; +1,6

Rode et al., 1999

+3,6

Schingoethe et al., 1999

+1,2; +0,9; +2,7; +1,3

Yang et al., 1999

+0,9; +1,9; +1,6

Beauchemin et al., 2000

-0,5; -0,5

Kung et al., 2000

+2,5; -0,8; +0,7; +2,5

Yang et al., 2000

-0,1; +2,1

Zheng et al., 2000

+2; +4,1; +1,5

1: valori numerici multipli sulla stessa riga indicano studi con differenti trattamenti enzimatici

Come nel caso dei lieviti, le discrepanze fra i risultati di esperimenti volti alla determinazione degli effetti dell’utilizzo di enzimi possono essere ascrivibili a fattori legati all’animale (livello produttivo) così come a differenze di attività enzimatica, tipologia di dieta somministrata, condizioni di temperatura e pH di azione, durata e metodo di applicazione del trattamento enzimatico, presenza di cofattori o sostanze inibenti l’attività enzimatica, nonché il rapporto “enzima:substrato”. Recentemente i tentativi di migliorare l’attività enzimatica si sono focalizzati su due differenti approcci:

Utilizzo di condizioni che simulino il rumine: Colombatto et al. (2003) enfatizzano l’importanza di testare gli enzimi fibrolitici e determinare la loro attività in condizioni simili a quelle ruminali in termini di pH e temperatura, dato che le attività riportate per gli enzimi sono spesso riferite a condizioni differenti. Il valore ottimale di pH per molti enzimi è compreso fra 4 e 5,5, sensibilmente inferiore ai valori tipici del liquido ruminale. Vicini et al. (2003), in una prova a larga scala su enzimi fibrolitici, concludono che gli enzimi testati non si sono rivelati essere efficaci nell’incrementare le performance produttive di vacche da latte in relazione alla loro bassa attività alle condizioni di pH e temperatura tipiche del rumine. Enzimi fibrolitici specificatamente selezionati per elevate attività in condizioni ruminali saranno più efficaci nell’incrementare la NDFD, quindi le performance della bovina.

Combinazione di pool enzimatici: gli enzimi sono estremamente specifici nel legame con i substrati e nel catalizzare le reazioni, in relazione all’elevata complementarietà enzima-substrato. Molta della ricerca effettuata negli ultimi anni sugli enzimi fibrolitici applicati alla nutrizione dei ruminanti si riferisce solo a cellulasi e xilanasi, che non sono in grado di idrolizzare i legami di tipo etere o estere degli acidi ferulico e cumarico, in grado di legare l’NDF potenzialmente digeribile alla lignina presente nella parete vegetale. Tali legami sono stati paragonati ai punti di saldatura presenti su una griglia di ferro: è per questo che i ricercatori hanno recentemente iniziato a focalizzare l’attenzione su tali composti in grado di inibire l’NDFD. La ferulico esterasi rilascia l’acido ferulico legato alle emicellulose, permettendo l’ulteriore degradazione della parete vegetale da parte di altri pool enzimatici. L’uso di tale enzima all’interno di pool enzimatici (xilanasi e cellulasi) produce quindi effetti sinergici nella degradazione dell’NDF.

Eun e Beauchemin (2006) hanno valutato l’efficacia di differenti pool enzimatici caratterizzati prevalentemente da attività di xilanasi ed esterasi per incrementare l’NDFD di fieni di medica e silomais. Essi hanno identificato una miscela che ha incrementato la digeribilità in vitro della sostanza secca e dell’NDF dei due foraggi di valori pari rispettivamente a +7-9% e +28-31%. Ulteriori prove hanno esaminato gli effetti legati alle performance produttive di bovine da latte alimentate con diete a basso (33% SS) o alto (48% SS) tenore in concentrati, basate su silomais che si differenziavano per il trattamento o meno con la miscela enzimatica vista sopra. L’utilizzo degli enzimi ha incrementato l’efficienza alimentare e la produzione lattea di 2,7 kg/die per le vacche alimentate con la dieta a maggior tenore in concentrati, ed ha determinato incrementi (seppur non significativi) nel caso delle bovine alimentate con la dieta a basso tenore in concentrati. Tali risultati evidenziano i benefici potenziali derivanti dall’utilizzo di pool enzimatici con diverse attività.

Recenti approcci volti al miglioramento dell’attività degli enzimi fibrolitici prevedono l’aggiunta di cofattori e la selezione di pool enzimatici innovativi. L’attività di molti enzimi viene incrementata dall’aggiunta di cofattori o coenzimi. In letteratura è elencata una moltitudine di molecole con tali potenzialità, tuttavia i dati sperimentali sono molto scarsi. Alcuni studi preliminari hanno rivelato che l’utilizzo di cofattori può migliorare l’attività dei pool enzimatici citati sopra, di per sé efficaci nell’aumento dell’efficienza alimentare e della produzione lattea. Tuttavia è necessario un maggior approfondimento per comprendere il ruolo dei cofattori. Ulteriori benefici verranno raggiunti tramite la selezione di nuovi pool enzimatici: alcuni autori hanno infatti isolato ceppi di batteri lattici in grado di produrre una ferulico esterasi con attività significativamente superiori a quanto normalmente utilizzato. Gli enzimi così prodotti saranno presumibilmente molto più efficaci nell’idrolisi dei carboidrati strutturali.

Gli enzimi fibrolitici possono incrementare la digeribilità dell’NDF presente nelle razioni per vacche da latte attraverso una combinazione di effetti pre e post ingestione da parte dell’animale. Tuttavia gli effetti sulle performance produttive non si sono dimostrati essere univoci. Hultjien (2008) riporta un rapporto costi-benefici legato all’utilizzo di enzimi fibrolitici pari a 1:2-3, tuttavia è necessario un maggior approfondimento scientifico tale da proporre sul mercato prodotti caratterizzati da effetti positivi costanti ed economicamente remunerativi in termini di miglioramento delle performance. Gli additivi alimentari possono essere utilizzati per manipolare l’ambiente ruminale, incrementare i livelli di performance ed efficienza da parte dei ruminanti e minimizzare i potenziali effetti negativi in termini di benessere animale ed impatto ambientale legato alle produzioni animali. Tuttavia sono disponibili vari prodotti con effetti non sempre univoci. Per questo motivo è necessaria una valutazione scrupolosa della letteratura per identificare additivi realmente efficaci: soltanto prodotti che garantiscono effetti positivi costanti certificati attraverso prove scientifiche sono in grado di produrre ritorni economici interessanti qualora impiegati in diete per vacche da latte.