Si sa che il prezzo di una materia prima è determinato principalmente dal rapporto tra domanda e offerta, con l’eccezione di quando le commodities diventano oggetto di speculazioni finanziarie. I produttori di latte subiscono spesso questa situazione vedendo modificarsi il costo di materie prime fondamentali come il mais e la soia, non tanto per le quantità raccolte ma per le speculazioni del mondo finanziario. Il latte, che in teoria è una commodity, non ha un prezzo legato alle così dette borse merci ma a trattative periodiche tra produttori ed acquirenti, che finiscono inevitabilmente per  soddisfare le aspettative di chi compra e non di chi vende. Se pur accettabile in linea generale la logica che il prezzo dei prodotti agricoli possa essere regolato dal rapporto domanda offerta ciò dovrebbe avere delle deroghe per quanto riguarda il prezzo del latte alla stalla. In realtà sarebbe auspicabile a livello internazionale un controllo delle dinamiche di determinazione del prezzo dei cereali e delle oleaginose, regolamentando le speculazioni finanziarie su di essi in quanto alimenti primari per l’uomo e per gli animali. La produzione del latte italiano è stata per 30 anni limitata da un regime quote latte fortemente penalizzante per il nostro paese, costringendoci ad importare , nel 2012,  9.948.000  tonnellate di latte a fronte di un fabbisogno complessivo di 16.947.000  tonnellate, e quindi con una percentuale di autoapprovvigionamento del 67.9%.

Il latte in Italia è consumato fresco ma, in buona parte, viene trasformato in formaggi DOP, IGP e STG che nel 2012 hanno espresso un valore fatturato di 4.1 miliardi di euro, di cui 1.5 realizzati all’estero. Il settore lattiero caseario è oggi il settore più importante dell’agroalimentare italiano, con un fatturato complessivo di 15 miliardi di euro e di cui il  30% realizzato all’estero. Nel primo trimestre del 2013 l’export è cresciuto di ben il 5.8%, a testimonianza di come il “made in italy” sia un’importante motivazione d’acquisto non solo in Italia ma anche, e soprattutto, all’estero. Rimanendo nel nostro paese vediamo l’appeal che ha il mettere l’origine italiana sulla confezione del latte fresco e o sui formaggi non necessariamente DOP o IGP. Di tutto questo contesto più che positivo sembra che a non beneficiarne siano solo gli allevatori ai quali costa non poco produrre quel latte italiano che tanto è gradito ai connazionali per la sua elevata qualità e sicurezza e che tanto traina l’affermazione all’estero dei nostri formaggi. Sappiamo che a Maggio 2004 con un decreto del MIPAAF sono state date le indicazioni su come etichettare sulle confezioni la provenienza del latte fresco. Girando negli scaffali della GDO è un proliferare di tricolori sul latte, burro, yogurt e quant’altro. Quando però le rappresentanze degli allevatori si siedono al tavolo delle trattative con l’industria di trasformazione, si sentono rispondere che di latte ne hanno abbastanza dall’estero e che è già bene che il prezzo pagato alla stalla non diminuisca.

Il tempo scorre e i nostri allevamenti vedono erodere implacabilmente la loro redditività in un contesto in cui gli alimenti zootecnici sono preda appetita della speculazione finanziaria e la provenienza italiana del latte è diventata una “ griffe” che però dà vantaggi concreti solo all’industria di trasformazione. Se il latte italiano fosse destinato al solo consumo alimentare ,magari come latte UHT ,sarebbe ovvio che il rapporto tra la domanda e l’offerta fosse l’unica logica da condividere. Siccome però la provenienza italiana del latte ha già di per sè un valore, credo che ci si debba sedere in modo diverso al tavolo delle trattative sul prezzo del latte alla stalla.

La politica , come avveniva un tempo, deve supportare gli allevatori in questo, ricordando che la legislazione  italiana vieta accordi di cartello come vieta che si possa vendere latte etichettato o propagandato italiano; perché ciò non può essere se il nostro autoapprovvigionamento è del 67.9%  e gran parte delle nostre produzioni è utilizzata per fare formaggii DOP e IGP per i quali non è possibile utilizzare latte straniero. La politica deve aiutare i nostri allevatori a far uscire il latte italiano dalla logica della commodity prima che i nostri allevamenti chiudano i battenti.