Si dice spesso che in Italia non si fa il latte ma il formaggio. Questo a testimonianza del fatto che il nostro popolo, con intelligenza e lungimiranza, ha pensato bene di non puntare solo sulla quantità di latte prodotto in quanto tale ma anche di far crescere parallelamente alla produzione l’attività di trasformazione. Inoltre, attraverso il recupero delle tradizioni locali, ha deciso di scommettere sui prodotti a denominazione d’origine, ossia DOP, IGP e STG, PAT e De.Co.
Queste “inimitabili” produzioni hanno permesso alla filiera del latte italiano di prosperare e di resistere al “buco nero” delle commodity, anche se questa operazione è riuscita solo parzialmente. Spesso, infatti, anche il prezzo dei prodotti a denominazione è soggetto alle speculazioni e al rapporto tra domanda e offerta. Appare quindi evidente che non siamo ancora riusciti a far uscire tutti i prodotti del latte dalla modalità “commodity”. Il vino, ad esempio, c’è l’ha quasi fatta: il prezzo delle bottiglie lo fanno le cantine ed è proporzionale agli investimenti in caratteristiche organolettiche, storytelling e notorietà fatti dai produttori. Quando si compra una bottiglia di vino si sceglie anche il luogo di produzione e la cantina. Esiste anche il vino a marchio delle catene di distribuzione ma è poca cosa rispetto al vino non commodity, non tanto come volumi ma come valore.
Dal meccanismo delle commodity sono esclusi i formaggi d’arte, ossia quei prodotti fatti da caseifici artigianali o agricoli conosciuti dai consumatori nei ristoranti di qualità, nelle fiere specializzate e nei mercati, oppure per curiosità andando a visitare i punti vendita di questi caseifici. Ruminantia, grazie alla sua rubrica Domus Casei e ai suoi progetti Il Carrello dei Formaggi e Formaggi & Caseifici Italiani, sta partecipando come media partner agli eventi organizzati da Guru Comunicazione come Formaggio in Villa, Made in Malga e Italian Cheese Awards, e comunque alle fiere locali e nazionali dove i formaggi d’arte vengono esposti e venduti. Questo ci ha spinto anche ad organizzare il Concorso Nazionale Yogurt in collaborazione con Michele Grassi, Casa Artusi e CremonaFiere, perché un certo tipo di yogurt è anche apprezzato come prodotto salutistico, e quindi in controtendenza alla reputazione che purtroppo hanno gli altri prodotti del latte.
I formaggi d’arte non sono un’alternativa a quelli commerciali, ma li affiancano e si rivolgono ad un pubblico che cerca nel formaggio un’esperienza sensoriale piuttosto che un cibo in quanto tale. I formaggi d’arte, alla stregua dei vini d’autore, sono immuni dalle polemiche salutistiche, perché per loro natura e per il loro prezzo vengono consumati saltuariamente e in piccole quantità. Molti degli artigiani del formaggio, siano essi caseifici o affinatori, che partecipano alle mostre-mercato italiane, mi hanno riferito che difficilmente il consumatore chiede loro il prezzo del formaggio che vorrebbe provare. A condizionarne l’acquisto è infatti il conoscere la storia del casaro, il luogo dove viene prodotto, il latte con cui è fatto, e qualche segreto.
La possibilità di vendere questa tipologia di prodotti del latte a non meno di 40 euro al chilo non costringe il formaggiaio alla logica dell’economia di scala tipica delle produzioni industriali ma lo obbliga all’eccellenza, alla cura dei rapporti con gli allevatori che fanno il latte per lui, a vendere ad un prezzo che esce dalle regole delle commodity e ad essere empatico con il proprio cliente.
A fare i prodotti a denominazione come le DOP, IGP e STG possono essere caseifici, industriali, artigianali e agricoli. Queste ultime due categorie sono più concentrate sulle PAT e sulle De.Co, oppure su creazioni uniche e irripetibili. La qualità del latte bovino, caprino, vaccino e bufalino condiziona molto il successo dei formaggi d’arte, che per loro natura sono meno standardizzabili di quelli industriali, perché ogni mese il latte è diverso, specialmente se si utilizzano fieni e pascoli, e perché il clima è anch’esso condizionante.
Ma allora il formaggio d’arte è migliore di quello industriale? Sicuramente no. Sono prodotti diversi che intercettano consumatori diversi e hanno logiche di prezzo diametralmente opposte, anche perché la catena del valore è breve, come è breve la distanza dalla produzione al consumo, anche se l’e-commerce ha infranto questo ultimo tabù. Fare gli industriali o gli artigiani del formaggio è un’attività complessa, e le logiche sono molto differenti tra loro. Di esempi di articoli industriali e artigianali ce ne sono moltissimi, e un confine netto tra loro non esiste. Per fare degli esempi che possano aiutare a capire questo contesto possiamo utilizzare quello dei coltelli e dei polli. Un coltello è uno strumento che serve semplicemente a tagliare qualcosa. Un coltello industriale può essere molto tagliente ed estremamente standardizzato, ed essere prodotto da un’azienda che ne produce moltissime tipologie con prezzi molto variabili. Un coltello artigianale non necessariamente taglia e dura di più di uno industriale, ma si rivolge ad un pubblico attratto dagli artigiani, dal “fatto a mano” e dal carisma e personalità del coltellinaio, e per queste ragioni è pronto a spendere di più. Il pollo è il tipico cibo commodity a basso prezzo ed è venduto un tanto al chilo, mentre il pollo o qualsiasi altro animale da cortile definito rurale non è venduto a peso ma al pezzo.
I formaggiai francesi sono molto abili nel commercio e per buona parte delle loro produzioni hanno scelto forme di piccola pezzatura, proprio per venderli al pezzo e non al chilo. In questo modo l’acquirente può apprezzarne l’etichetta e le informazioni che veicola, ed è possibile raggiungere posizionamenti di prezzo molto elevati. Tanti di questi prodotti artigianali come i formaggi d’arte e i vini particolari hanno produzioni limitate e spesso liste d’attesa da rispettare. Alcuni di questi artigiani sono poi cresciuti e diventati industriali. Qualcuno ha dimenticato le sue origini e i suoi valori e altri no, ma questa è la “biodiversità” di ogni attività umana e della natura. E poi si dice che il mondo è bello perché è vario.
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