Bella frase quella del titolo, ma come si fa ad esserlo quando si è quotidianamente investiti da uno tsunami d’informazioni? Chi di noi ha molte “lune” sulle spalle ben si ricorda quando non c’erano i cellulari (figuriamoci gli smarthphone), internet e c’erano solo pochi canali sulla TV. Ci si informava dai giornali, dalla TV, leggendo  libri, dialogando e andando a comizi e convegni. In agricoltura poi erano mercati, fiere e rappresentanti ad essere la primaria fonte d’informazione. Era l’epoca del “che si dice”e “l’ha detto la televisione” . Noi cosìddetti tecnici eravamo frequentatori seriali della cassetta della posta per leggere per primi l’articolo tecnico e scientifico pubblicato sulla rivista a cui si era abbonati. Diventavano più bravi quelli che abitavano nel luogo dove il servizio postale era più efficiente.

Ma com’è oggi la situazione? Completamente capovolta. Alcuni numeri impressionanti. Nel triennio 1998-2001 sono state prodotte più informazioni che in tutta la storia dell’umanità. Ogni due giorni vengono generati una quantità di dati equivalenti a quelli prodotti dall’origine della civiltà. Ogni giorno vengono prodotti 500 milioni di tweet, pubblicate 70 milioni di foto, 4 miliardi di video su facebook e 2.5 quintilioni di dati. Nell’area biomedica vengono pubblicate 15.000 riviste che generano oltre 6 milioni di articoli l’anno. La sola rivista Nature riceve 9000 articoli scientifici l’anno ed è costretta a respingerne il 95%. In questa che viene chiamata l’era dei “big data”, o della iper-informazione, si rischia di diventare ancora più ignoranti e disinformati, di incrementare pregiudizi e superstizioni e di diventare facile preda di chi invece ben conosce le regole dell’informazione e, disponendo di immense risorse economiche, è in grado di manipolarla a suo vantaggio. Sia per scopi politici che economici e, più in generale, di potere.

Quando Ruminantia si è affacciata nell’affollato contesto dell’informazione sul web e sui social media ha subito soppesato le opportunità e i rischi di questo nuovo settore che rimane comunque una grande innovazione e una immensa opportunità per l’intera umanità. Le regole del gioco: informazioni flash, approfondendo il meno possibile, e per accattivarsi il consenso dei social media informazioni negative e catastrofistiche. Le stesse regole che utilizza una parte consistente della politica che non ha mai abbandonato l’antichissimo “dividi et impera” e “la strategia della paura”. Per meglio comprendere quest’ultimo punto consigliamo la visione di “V per vendetta” del 2005 dei fratelli Wachowski (gli stessi autori della saga di Matrix).

Obbligati dalla mission di Ruminantia, e dal suo payoff  “Libero confronto d’idee”, a dare un’ informazione laica e indipendente nel complesso mondo dell’agroalimentare, ed in particolare del mondo del latte e della carne, ci siamo presto accorti che qualcosa non andava. Il “Made in Italy” è diventato sempre più un “umbrella brand” perché sinonimo di saper fare e di uno stile di vita ambito e peculiare in crescita esponenziale. Chiunque frequenti l’estero e accoglie in Italia, per lavoro o per turismo, stranieri, sa bene di cosa stiamo parlando. Intendiamo una crescita dell’Italian style non casuale ma frutto di una storia d’arte e cultura millenaria, di rispetto per l’ambiente, d’imprenditori “kamikaze” e uomini di cultura che hanno portato all’estero il nostro essere italiani, per non parlare dello sterminato numero di nostri concittadini che occupano ruoli strategici nelle multinazionali e nella grandi banche.

E nel nostro paese? Una competizione a chi ne parla peggio, una classe politica trasversale che non meritiamo ma che abbiamo eletto, un esercito di costose istituzioni volte principalmente alla tutela dei loro interessi e che riempie i media di catastrofiche e indignate informazioni senza mai e volontariamente risolvere quelli che sono i normali problemi di una società in evoluzione, secondo noi, verso un futuro migliore. Risolvere i problemi delegittimerebbe buona parte di loro, spingendoli verso l’inutilità e costringendoli quindi a lavorare veramente.

Ben si sa che l’economia si basa molto sull’emotività. Ricordiamo tutti quando crollarono le borse di mezzo mondo al diffondersi della notizia delle scappatelle dell’allora presidente USA, Bill Clinton, con la stagista Monica Lewinsky. In un contesto di un Paese farraginoso, gestito da politici e burocrati che hanno perso ormai da tempo il senso dell’ideologia e dello stato, come fa l’economia a decollare, a dare occupazione e prosperità? Come fanno gli investitori stranieri e i capitali italiani a investire per creare sviluppo? E il paradosso è che il “Made in Italy”, non solo di prodotti ma anche del saper fare, sta avendo una diffusione virale nel mondo anche nel settore dell’agroalimentare. E anche vero che “chi di speranza vive disperato muore” per cui, come sempre è avvenuto nella storia, sono le persone a imporre i cambiamenti. Bisognerebbe solo riuscire a districarsi meglio tra le informazioni, farsi ingannare meno dall’aspetto e dalla parlantina di chi arringa le folle, ricordarsi bene quando si vota o si rinnovano le molteplici tessere di chi ha fatto e non fatto di concreto qualcosa per il nostro paese. Nell’epoca dei big data, a maggior ragione, essere ignoranti e disinformati è una scelta ma poi non bisogna lamentarsi se le cose non vanno.