Ha creato sdegno e ira nei Social una scena del film “Gli amigos” di cui parleremo in seguito, realizzato dal regista Paolo Genovese per il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano per condividere con la gente i valori di questa DOP.

Ruminantia ha dedicato a questa campagna pubblicitaria molto spazio perché la ritiene di altissimo livello e in netta discontinuità con la comunicazione, presente e passata, di buona parte dell’industria lattiero-casearia e dei Consorzi di Tutela italiani. Abbiamo spesso attribuito alla comunicazione della produzione del latte, specialmente bovino, basata su simbologie naïf di animali al pascolo e di improbabili contadini, la causa del senso d’inganno provato dai media e dalla gente comune quando scopre che la realtà dell’allevamento è tutt’altra rispetto a quella che vede nella pubblicità. Nè meglio nè peggio, ma completamente diversa da come viene rappresentata, e questo dà l’inequivocabile sensazione che gli allevamenti abbiano qualcosa di “tremendo” da nascondere. Addirittura una nota associazione animalista lo definisce “segreto inconfessabile”.

Si dice però che “non tutte le ciambelle escono con il buco”, e questo è successo al film Gli Amigos, del quale è stata aspramente criticata la scena nella quale i protagonisti incontrano Renatino nel caseificio dove si produce il Parmigiano Reggiano.

Era volontà del regista e del Consorzio trasferire il messaggio di artigianalità vissuta quasi come missione utilizzando l’allegoria di un giovane casaro dall’amabile nome Renatino che non si ferma mai, che lavora tutti i giorni dell’anno e non va in ferie. Questa “licenza” cinematografica non può ovviamente essere reale in una società che ha abolito la schiavitù da secoli e che ha l’articolo 36 della Costituzione che recita testualmente: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

Nonostante questo, che non è poco, l’allegoria di Paolo Genovese ha scatenato una polemica inimmaginabile che però ha avuto il pregio di esasperare le contraddizioni di anni di erronea comunicazione della produzione primaria di latte. I fraintesi tra la filiera del latte e l’opinione pubblica stanno mettendo in seria difficoltà questo settore nel mondo occidentale, difficoltà che si sta estendendo anche nelle economie emergenti, e anche lì tra le fasce agiate della popolazione e i giovani. Il concetto di martirio, ossia che gli allevatori per “sopravvivere” debbano lavorare 365 giorni l’anno, è entrato da tempo nella comunicazione, anche basilare, non solo degli allevatori ma delle molte figure professionali che orbitano intorno ad essi. Abbiamo tutti considerato essere un valore l’alzarsi prestissimo al mattino, andare in ferie controvoglia, lavorare durante le festività e non avere comunque un orario di lavoro.

Basta far scorrere il feed di Facebook, soprattutto nei molto gruppi di allevatori, per capire di cosa stiamo parlando. Continuiamo a commiserarci ma anche a bearci di questo nella speranza di generare compassione, che in italiano non significa pietà ma condivisione, nell’opinione pubblica o meglio nei cittadini consumatori, dai quali dipende la nostra esistenza. Un allevatore, un buiatra, un mangimista e un produttore di attrezzature esiste perché c’è un consumatore che mette nel carrello della spesa una confezione di latte o uno spicchio di formaggio invece che bevande vegetali, tofu, legumi e cereali, o nella peggiore delle ipotesi cibi artificiali. Quello che è drammatico è che nella maggior parte delle situazioni gestite con razionalità non c’è martirio, e neppure sciattezza e nullafacenza. La tecnologia è entrata di diritto negli allevamenti. Gli allevatori sono forse la categoria di persone che maggiormente utilizza internet e i Social Media, e la scolarizzazione sta aumentando più rapidamente del previsto.

Esistono allevatori disorganizzati o semplicemente sfortunati che per ottenere modesti risultati economici si devono “ammazzare” di lavoro ma ciò è normale, succede anche nelle scuole e in ogni ambito lavorativo, ma lì si chiamano sgobboni. Viste le performance della nostra zootecnia da latte e l’aumento delle dimensioni degli allevamenti, ormai la loro gestione è imprenditoriale e la qualità della vita degli allevatori è negli anni nettamente migliorata rispetto al passato, anche se le preoccupazioni e le responsabilità sono cresciute. Abbiamo fatto esperienza ormai diversi anni fa della fragilità dello stereotipo del martire per ingraziarsi l’opinione pubblica, non per il fatto in sè ma per le contraddizioni che si porta dietro. È ancora vivo in tutti noi il ricordo delle sacrosante e condivisibili lotte degli allevatori contro l’iniquo regime delle quote latte o per un prezzo del latte alla stalla più equo, ma condotte male ossia occupando strade e aeroporti con trattori ipercostosi che altro non hanno fatto che irritare la gente coinvolta nel disagio. Persone magari in possesso per lo più di una casa in affitto e un’automobile modesta acquistata a rate.

Lo stereotipo del martirio e le sue contraddizioni con la realtà non sono risuscite neanche ad impietosire gli industriali del latte. Andare a trattare il prezzo del latte con vestiti malconci e il capello in mano non ha dato mai i risultati dovuti. Il prezzo del latte lo deve fare chi vende non chi compra, e andarlo a pretendere anche a bordo di una Ferrari è quanto mai legittimo. Lo stereotipo del martirio, dicevamo pocanzi, è inoltre tracimato verso i buiatri, verso chi dovrebbe fare l’agente di commercio in zootecnia e verso i lavoratori di stalla, creando un vuoto occupazionale che sta mettendo a rischio il futuro dell’allevamento. Lo stereotipo del martirio ha i suoi effetti nefasti anche sul ricambio generazionale, soprattutto negli allevamenti più piccoli e nelle zone interne. Ho spesso sentito con le mie orecchie genitori allevatori dire ai propri figli: “mica vorrai fare la vita che ho fatto io! Vai in città a studiare e cercare lavoro“.

Per cui Consorzio del Parmigiano Reggiano ancora grazie per il tuo film “Gli Amigos” perché attraverso la “licenza poetica” di Renatino ci hai fatto riflettere anche sul fatto che prima abbandoniamo lo stereotipo del martirio dagli allevamenti e dalle professioni attinenti e meglio sarà per tutti noi, e non solo quindi per gli allevatori. Un anziano saggio che conoscevo mi ripeteva spesso quando ero ragazzo “è meglio essere invidiati che compatiti“, e con il senno di poi penso proprio che avesse ragione.